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    IL JAZZISTA VENUTO DAL CIELO – MOLENDINI IN LODE DI SUN RA: CON IL SUO AFROFUTURISMO SUGGESTIONÒ LA BLACK MUSIC E PERFINO LADY GAGA - LA NOTTE D’INVERNO IN CUI STREGÒ ROMA, CON LA VERSIONE DI "SPACE IS THE PLACE", UNA CANZONE LEGATA AL SUO SENSO DI ESTRANEITÀ DA UNA SOCIETÀ NELLA QUALE ERA VITTIMA DI UNA DOPPIA SEGREGAZIONE, COME AMERICANO DALLA PELLE NERA E COME OMOSESSUALE - VIDEO


     
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    Saint Louis - Sun Ra Saint Louis - Sun Ra

    Marco Molendini per Dagospia

     

    Il jazzista venuto dal cielo arrivò a Roma con un paio di scudieri della sua Arkestra. Si sedette al piano e cominciò a viaggiare nello spazio musicale. Era una notte d’inverno a via del Cardello, in un ex teatro trasformato in un club di jazz, il Saint Louis.

     

    Il più anomalo dei jazzisti, il leader di una comune musicale guidata con regole militari e legami strettissimi, aveva scelto di esibirsi nella sua veste più intima, quella del pianista, un mestiere che faceva già da ragazzino prodigio, da solo o in gruppi jazz e r&b. 

     

    SUN RA 1 SUN RA 1

    La sua musica, quella sera, era assai meno torrida di quella che produceva abitualmente l’Arkestra. Meno anarchica ma sempre sorprendente fra alti e bassi, capace di aprire squarci di sereno in classici standard come St. Louis blues o l’ellingtoniana Take the A train (Duke era un eroe giovanile di quel ragazzo cresciuto in Alabama), o  nello spiritual Sometimes I feel like a motherless child, o nei brani della sua produzione come lo speciale Outer Spaceways Incorporated: quest’ultimo un piccolo, seducente campionario della sua idea musicale.

     

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    Comincia come una fascinosa canzoncina fuori dal tempo, dove l’allora sessantatreenne Sun Ra sfodera una voce infantile che sembra provenire da lontano, forse da un altro pianeta, segno ulteriore e spontaneo del suo sentirsi comunque altrove, chiuso nel suo cosmo musicale. Un incipit morbido e affascinante dal quale poi si scatena una tempesta sonora con le mani del jazzista caduto sulla terra che si dividono imbizzarendosi fra il pianoforte e le tastiere.

    Sun Ra Sun Ra

     

    Non poteva mancare la sua sigla, Space is the place, abituale finale degli show dell’Arkestra al completo con tutta la big band  che cantava in coro un testo che la diceva lunga sul perché Herman Blount, a un certo punto della sua vita, avesse deciso che invece che a Birmingham fosse nato su Saturno per poi sbarcare sulla Terra a bordo di una navicella spaziale in missione per predicare la pace.

     

    Una conversione astrale che già aveva mostrato i primi segni a metà degli anni Trenta, ma che poi si era definita negli anni Cinquanta quando, a suo dire, Herman Blunt vide una luce e cambiò il proprio nome in Le Sony’r Ra.

     

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    Quella notte, nel club romano davanti a una raccolta rappresentanza del popolo del jazz, Sun Ra offre una versione solo strumentale di Space is the place, sovrapponendo e alternando piano e minimoog ma facendo affiorare comunque, quantomeno nella memoria, le parole di quella canzone così legate al suo senso di estraneità da una società, quella terrestre, nella quale era vittima di una doppia segregazione, come americano dalla pelle nera e come omosessuale: “Space is the place where I will go/And just because you kiss your Brother /It doesn't mean to say you're gay/ And just because you're loving him / it doesn't mean you don't love me” (“Lo spazio è il posto dove voglio andare/ E solo perché baci un tuo fratello/Non significa che stai dicendo di essere gay/E solo perché lo ami/Non vuol dire che non ami me”)

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    Al Saint Louis l’occasione avrebbe meritato maggiore presenza di pubblico, ma, chi c’era, non poteva non rimanere soggiogato dalla fantasia di quell’alieno incartato in un costume luccicante con un copricapo egizio e scortato da due scudieri, un batterista per lo più inattivo, chiamato al lavoro dal leader e spesso tacitato dopo poche battute, Luqman Ali, e il cantante Thomas Thaddeus (che si faceva chiamare anche Pharaoh Abdullah)  alle prese con lo standard How I Am I To Know.

    Sun Ra Sun Ra

     

    Quel concerto è stato sepolto nella memoria per quarant’anni, poi è magicamente riapparso come album, ''In some far place- Roma ‘77'', ad arricchire ulteriormente la discografia del jazzista venuto da Saturno, che nella sua carriera ha registrato un migliaio di brani. Una ricchezza discografica frutto della sua indipendenza artistica, nel 1955 Sun Ra aveva fondato un’etichetta, El Saturn, cominciando a registrare i concerti con la sua formazione di allora, i Cosmic Rays, un gruppo doo-wop.

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    Negli anni è poi andato avanti a stampare la propria musica, anche in edizioni ridottissime  di poche decine di copie confezionate in maniera amatoriale , utilizzando copertine realizzate dagli stessi musicisti dell’Arkestra.

     

    Ricordo di essere andato via, dopo una dilagante intervista (in cui non rinunciò a elargirmi una delle sue  maestose affermazioni: “C’è che mi chiama Mr. Ra. Altri mi chiamano Mr. Re. Tu puoi chiamarmi Mr. Mystery”), con un pacco di quei dischi artigianali dove spesso il suono della musica si confondeva con i gracchii della lacca e i rumori di fondo delle registrazioni.

    george clinton 9 george clinton 9

    Tanta sterminata produzione, arricchita da edizioni postume come In some far place, resta però a testimoniare l’originalità di un personaggio creativo capace di suggestionare con il suo afrofuturismo la black music, da George Clinton agli Earth, Wind and fire. Persino Lady Gaga ha attinto dalla sua miniera, inserendo  nel brano Venus, contenuto nell’album Artpop, un sample di Rocket Number 9, parte del repertorio dell’artista venuto da Saturno.

     

    PS. Sun Ra è morto nel 1993, aveva 79 anni, ma la sua Arkestra è ancora attiva: a guidarla un suo spettacolare luogotenente, il sassofonista Marshall Allen, di anni 97

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