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    L'ARTE E' UN GIOCO NEL LUNA PARK DI HÖLLER - A LONDRA LO SCIVOLO PIU’ ALTO DEL MONDO, A MILANO UNA MOSTRA INTERATTIVA TRA ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE ED UN’ESPERIENZA LISERGICA - BONITO OLIVA CITA ERACLITO: “IL TEMPO E’ UN FANCIULLO CHE GIOCA A DADI COL MONDO”


     
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    HOLLER HOLLER

    1. NASCE LO SCIVOLO PIU’ ALTO DEL MONDO

    Dal “Corriere della Sera”

     

    Si chiama «The Slide» (lo scivolo), sarà alto 178 metri e quando aprirà il 24 giugno a Londra, sarà il più alto del mondo. Il progetto del belga Carsten Höller sarà un tubo attorno alla torre «ArcelorMittal Orbit» di Anish Kapoor.

     

     

    2. BENVENUTI AL LUNA PARK DOVE L’ARTE È UN GIOCO

    Achille Bonito Oliva per “la Repubblica”

     

    «Il tempo è un fanciullo che gioca a dadi col mondo ». L’affermazione di Eraclito può diventare l’emblema della vasta antologica di Carsten Höller alla Pirelli HangarBicocca di Milano, a cura di Vicente Todolí, fino al 31 luglio 2016, Doubt è il titolo della mostra con oltre venti opere che comprendono sculture, video, fotografie, ambienti e installazioni sotto il segno della partecipazione e dell’interattività.

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    Doubt, in italiano dubbio, è un invito dell’artista ad abbandonare ogni certezza ed aprirsi ad una partecipazione attiva che si pone sempre come una domanda aperta. La soluzione dunque spetta al pubblico che viene immesso in uno spazio estraniante, segnalato attraverso illuminazioni psichedeliche, una sorta di passaggio di un confine di realtà e surrealtà. Tra Alice nel paese delle meraviglie ed un’esperienza lisergica.

     

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    Carsten Höller crea dei veri e propri attrezzi della devianza, capaci di far deragliare lo spettatore dai luoghi comuni dell’esperienza quotidiana ed approdare, assistito, a sfiorare nuovi contatti con le cose.

     

    L’arte è un’esperienza polisensoriale, un allarme emotivo che costringe lo spettatore ad assumere una partecipazione, non estasi contemplativa quanto piuttosto dialogo con l’opera predisposta e costruita sotto il segno ludico. Il gioco è senza dubbio il regime espositivo che regge anche questa mostra.

     

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    Il fantasma di Eugene Fink, filosofo tedesco noto per le teorie sul gioco e la cosmologia, aleggia nelle ampie navate dell’Hangar Bicocca che ospitano macchine di visione attiva e dislocazione emotiva. L’artista sviluppa leggere costrizioni, impone procedure di fruizione tra divertimento e piccole paure. Ecco che la mostra sviluppa, secondo la stessa definizione dell’artista, un intrattenimento radicale, esplorazione di una possibile dilatazione dell’esperienza prodotta dall’opera.

     

    Decision Corridors (2015) è una duplice entrata nel percorso espositivo, secondo l’opzione scelta dallo spettatore costretto a una lunga peripezia al buio per approdare alla visione straniante e fantasiosa nella totalità dello spazio espositivo, abitato da grandiosi attrezzi della devianza.

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    Se l’attrezzo sembra citare sofferenza e costrizione, la devianza diventa il movimento che evita la paralisi e immette un’idea di scambio dinamico e di relazione. Lo spazio ammette molti spostamenti, fisici e mentali che favoriscono concentrazione e spaesamento. Flying Mushrooms (2015) per natura e dimensione alludono a una possibile percezione allucinata, ad un’inversione dello sguardo che ribalta l’alto e il basso, l’orizzontale e il verticale. Niente di drammatico. Infatti s’inciampa nella grande giostra Double Carousel (2011) da montare con a bordo un’altra opera, Upside- Down Goggles (1994/2011), prismi di vetro rovesciato per ribaltare la visione.

     

    Nel movimento rotatorio prevale la lentezza, eliminata l’ebbrezza infantile della velocità e favorita invece una nuova vertigine per lo sguardo.

     

    Non esistono prove a cui sottomettere lo spettatore. Anzi. Ecco Aquarium (1996) che invita all’immersione in posizione orizzontale in un ambiente marino con la testa all’interno di un acquario pieno di pesci guizzanti. Dal sottomarino all’aereo, imbracati nelle Two Flying machines (2015) sospesi come in un parapendio. Sembra prevalere un invito all’insonnia, un perenne stato di dormiveglia ai confini della realtà dove non si perde il peso gravitazionale del corpo e nello stesso tempo si conquista la sospensione del volo e dello spazio aereo.

     

    Non esistono oggetti inanimati. Tutto è predisposto per sviluppare nuove esperienze e diverse relazioni tra soggetto e oggetto. Revolving doors (2004/2006) è l’affermazione di un costante disorientamento. Cinque porte girevoli e specchianti introducono lo spettatore in un labirinto spaziale che assedia lo spettatore e lo spinge verso l’imprevisto di nuove opere. In Two Roaming Beds (grey) (2015) i letti non dormono, abbandonano la loro proverbiale funzione d’inerte accoglienza per diventare silenziose macchine in movimento che si spostano nello spazio nella notte.

     

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    Memoria delle macchine barocche e di quelle celibi di Marcel Duchamp che impongono una morbida disciplina ed un protagonismo partecipe dell’opera. Torna anche alla memoria l’opera Test Site esposta nel 2007 alla Tate Modern di Londra che conferma un gentile atto costrittivo dell’opera che obbliga lo spettatore ad una partecipazione non platonica ma ad una esperienza oltre il normale.

     

    L’arte diventa il motore di una sperimentazione e accelerazione sensoriale, campi di esperienza che si aprono e permettono di esplorare nuovi spazi fisici e mentali. Il pubblico diventa una vera e propria comunità di partecipazione attiva, un nuovo villaggio emotivo nello spazio della mostra.

     

    Qui esiste una captazione amorosa, il corpo dello spettatore viene come inseguito e circoscritto dentro un’area di concentramento, fuori dalla quale non sono possibili rapporti e relazioni. All’interno di essa il corpo trova la propria realizzazione perché non esiste alcuno strumento di tortura.

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    Infatti il soggetto sceglie liberamente la sua partecipazione, quasi perdendo la preferenza affettiva verso il proprio corpo ponendosi in una posizione di aperta complicità. Così il pubblico si adatta docilmente nella posa stabilita per il funzionamento dell’opera.

     

    In definitiva per Carsten Höller l’arte è necessariamente interattiva perché richiede di riflettersi nello specchio del pubblico, a verifica della sua reale surrealtà.

     

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