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    "IL MACELLAIO DI BILBAO? LA FAMA DEL CATTIVO MI ACCOMPAGNERÀ PER SEMPRE” - ANDONI GOIKOETXEA, EX DIFENSORE DELL’ATHLETIC BILBAO, PARLA DEL FALLO KILLER SU MARADONA CHE PROVOCÒ IL GRAVE INFORTUNIO DELL'ARGENTINO NEL 1983: “QUELL'INTERVENTO MI HA DATO UNA POPOLARITÀ SINISTRA. ENTRAI SCOMPOSTO E IN RITARDO PERCHÉ LUI ERA VELOCISSIMO MA NON VOLEVO FARGLI DEL MALE” - POI RACCONTA DI QUANDO DIEGO LO PERDONÒ DAVANTI A UN CAFFÈ - VIDEO


     
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    Antonio Barillà per "la Stampa" - Estratti

    ANDONI GOIKOETXEA MARADONA ANDONI GOIKOETXEA MARADONA

    Ci sono momenti, episodi, che marchiano una vita. Incollano etichette dure da staccare. Andoni Goikoetxea è stato bandiera dell'Athletic Bilbao, mantiene il record rojiblanco di gol segnati da un difensore e ha vestito 39 volte la camiseta della Spagna, eppure c'è un'immagine che oscura tutto e macchia la carriera, l'entrata violenta su Diego Armando Maradona al Camp Nou il 24 settembre 1983.

     

    «Quel fallo mi ha dato una popolarità sinistra, mi ricordano solo per quello. Non mi riconosco nei ritratti, nei soprannomi, nella fama di cattivo, però devo conviverci: la storia non si può cambiare».

     

    ANDONI GOIKOETXEA3 ANDONI GOIKOETXEA3

    Goikoetxea, cominciamo da quel giorno?

    «La partita era tesa, la rivalità tra i due club profonda. L'intervento non merita giustificazioni però, credetemi, non ci fu nulla di intenzionale, non volevo fare male a Diego. Entrai scomposto e in ritardo perché lui era velocissimo, mi prendo comunque tutte le responsabilità».

     

    Capì subito la gravità delle conseguenze?

    «Che non fosse un infortunio banale mi son reso subito conto, della frattura multipla ho appreso più tardi. Ero scosso, dispiaciuto, fu il tecnico Clemente a informarmi della diagnosi e poi dell'intervento chirurgico».

     

    El crimen, titolò El Mundo.

    «E io diventai El carnicero, il macellaio di Bilbao. Furono giorni difficilissimi, subii critiche aspre ma anche minacce».

     

    Chi l'aiutò a uscire da quel vortice?

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    «Chi mi conosceva e sapeva com'ero davvero, chi non mi giudicava da un intervento duro ma non voluto: la mia famiglia, i miei compagni, i tifosi dell'Athletic».

     

    Nella partita successiva, in Coppa Campioni con il Lech Poznan, ricevette un'ovazione...

    «Compresero il momento particolare e mi fecero sentire tutto il loro affetto. Segnai anche il primo gol della rimonta che ci ha permesso di ribaltare lo 0-2 subito in Polonia e qualificarci: avevo appena appreso d'essere stato squalificato per diciotto giornate, sentire il calore della mia gente mi ha fatto bene e ancora oggi ringrazio tutti. Ho negli occhi l'immagine di fine gara, gli applausi del pubblico mentre i compagni mi prendevano sulle spalle».

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    Ad amplificare le reazioni popolari, il timore che la carriera di Maradona, il predestinato, potesse finire lì...

    «Per fortuna un timore infondato. Tornò in campo alla fine della stagione. Sa cosa ripeto sempre quando mi accusano d'aver messo a repentaglio il futuro del fuoriclasse argentino?».

     

    Dica...

    «Che la vera carriera, quella vincente, al contrario è cominciata dopo. Ha vinto due scudetti e una Coppa Uefa con il Napoli, un Mondiale con l'Argentina».

     

    Ci fu un movimento popolare che voleva cacciarla dalla nazionale.

    «Il ct Munoz ricevette un'infinità di pressioni, fu forte a resistere e convocarmi».

     

    Davvero conserva le scarpette del fallo in una teca?

    «Sì, ma non si pensi a un trofeo. Sono piuttosto un simbolo. Le ho indossate due volte, il giorno della partita che mi ha segnato nella sfida di Liga con il Barça e in quella con il Lech Poznan: rappresentano i due volti del calcio, il momento più basso e la rinascita, il dolore delle critiche e la carezza della comprensione, l'importanza di non sentirsi soli».

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    Con Diego vi ritrovaste di fronte il 5 maggio del 1984, in finale di Coppa del Re.

    «Vincemmo uno a zero, decise Endika: il clima era rovente, non poteva essere altrimenti».

     

    La pace tanti anni dopo...

    «Dopo gli anni azzurri in Italia, tornò in Spagna, al Siviglia. Chiesi io di parlargli, attraverso un suo dirigente, e lui accettò, è stato molto gentile. Ci siamo visti nell'hotel dov'era in ritiro, prendemmo un caffè e chiacchierammo a lungo: l'episodio è stato toccato tra tanti altri argomenti, la cosa bella è che mi dimostrò di non serbare rancore».

     

    Lei sostiene che fu un fallo occasionale, ma a Barcellona la fama da picchiatore era precedente. I tifosi blaugrana la mal sopportavano già da un paio d'anni, imputandole un grave infortunio di Schuster...

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    «La sua lesione c'era già, non l'ho detto io ma il medico del Barcellona: strascico di uno scontro di gioco durante una partita con il Colonia, il mio contrasto non c'entrava nulla».

     

    Quanti cartellini gialli e rossi, in carriera?

    «Tanti, ma mai per falli violenti. Per gioco duro e risse verbali: ero grintoso, focoso ma non cattivo».

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    Eppure il Times l'ha collocata al primo posto nella speciale graduatoria, e per il Sun la precede solo Souness...

    «Lo so, ma non mi specchio in queste descrizioni. La fama del cattivo mi accompagnerà per sempre e non posso scacciarla».

     

    (…)

     

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