fulvio abbate
Fulvio Abbate per www.linkiesta.it
Non c’è donna che, in cuor suo, non abbia sognato d’essere amata o comunque portata lontano dalla miseria del mondo dal rude King Kong. E ancora: non c’è uomo che non abbia sognato, nel momento della riscossa dalle amarezze familiari e dallo sfruttamento quotidiani, che non abbia sperato che, dal nulla, giungesse l’immenso gorilla, solo all’apparenza creatura bestialmente spietata, sì, a salvarlo, a dargli manforte nella lotta amorosa e perfino in quella di classe.
KONG SKULL ISLAND
Addirittura come ipotesi di fornicazione selvaggia. Forse perfino per avere ragione dei millesimi altrui in una riunione di condominio. Non è un caso d’altronde che, dopo infiniti iniziali dubbi, la scena-acme in cui Kong viene abbattuto dalla guglia dell’Empire State Building, trovi sempre le lacrime di partecipazione delle persone cui sta a cuore la giustizia, la libertà e l’esatta cifra d’ogni conguaglio annuale, se così non fosse le autoblindo anarchiche della guerra di Spagna del 1936 non sarebbero state mai a lui intitolate, non ne avrebbero portato sulle lamiere il nome glorioso accanto a quello degli eroi libertari del “Ni Dios ni amo”, cioè né Dio né padroni.
D’altronde, poche creature adulte – poco importa se maschi o femmine – sanno essere accudenti e delicati con l’oggetto d’amore come pare lo sia da sempre King-Kong, ed è solo un’impressione che egli voglia, possa, debba, pretenda di fare del male alla bellezza bionda che tiene in pugno in cima all’attico a un millimetro del cielo della metropoli pulsante.
KONG SKULL ISLAND
King Kong? Non c’è momento aggrovigliato e problematico, buio pesto o crollo finanziario della storia del mondo, forse perfino improbabile congresso PD o meetup grillino, che non veda qualcuno sognarne il ritorno, accadde per la prima volta negli anni Trenta, quando il bianco e nero governava le sue immagini in movimento, avviene in questi nostri giorni recenti in cui ogni “frame” è invece frutto di ragioneria e ingegneria digitale, questo per dire che non c’è più bisogno della cartapesta per inscenare il momento decisivo della storia del sublime gorilla, i biplani dell’Ordine Pubblico a corrergli intorno per crocifiggerlo come un San Sebastiano in grado di suscitare però lacrime di commozione assai più vere di quelle offerte dallo stesso patrono trafitto e perfino da Marcellino pane e vino.
KONG SKULL ISLAND
Non c’è uomo che non abbia sognato, nel momento della riscossa dalle amarezze familiari e dallo sfruttamento quotidiani, che non abbia sperato che, dal nulla, giungesse l’immenso gorilla, solo all’apparenza creatura bestialmente spietata, sì, a salvarlo, a dargli manforte nella lotta amorosa e perfino in quella di classe
KONG SKULL ISLAND
Abbiamo ipotizzato un King Kong ora “antifascista” ora grillino che mette l’1 al posto del punto esclamativo, da piazzare accanto alla Pasionaria e al bluesman di colore che andò a esibirsi per i miliziani del fronte repubblicano o magari in occasione del vaffa day, tuttavia il film originale sembrava contenere un sottotesto spiccatamente razzista. Nel senso che i personaggi di colore erano caratterizzati come “cannibali” e “selvaggi” da contrapporre agli esploratori bianchi “civilizzatori" in sahariana inamidata e casco coloniale. Kong mostrava infatti, soprattutto quando sorrideva, i caratteri somatici dei “negri”, era tipico insultare le persone di colore paragonandoli a scimmie o gorilla appunto.
KONG SKULL ISLAND
La sequenza che lo mostra mentre viene portato via dall’Isola del Teschio, incatenato e poi ucciso è speculare all'immagine dello schiavo africano preda e bottino dei colonizzatori. E perfino il sentimento struggente di Kong per Ann, appare infine come metafora degli uomini di colore in cerca di prede bianche femminili per usare loro violenza carnale, un immaginario da Ku Klux Klan, e dunque chissà che, nell’età di Donald Trump e delle bionde Melania e Ivanka, non faccia ritorno a noi pure quest’allusione da “nazisti dell’Illinois” (cit.).
KING KONG
Quanto al remake del 1976, abbandonato l’antico e proverbiale grattacielo déco di Manhattan, il gorilla faceva mostra di sé in cima al Word Trade Center, e intanto i biplani erano stati sostituiti dagli elicotteri, Ann è Jessica Lange, la sua “biondità” hollywoodiana, le sue gambe nel vuoto.
Nel 1977 il poeta Gino Scartaghiande, tra i protagonisti del leggendario “Festival internazionale dei poeti” che si tenne sulla spiaggia di Castelporziano, pubblicò con le edizioni della Cooperativa scrittori proprio i suoi “Sonetti d’amore per King Kong”. Così cantavano: “Ma io t'amo King Kong. Vieni con la narice dilatata. Come un altro verbo in codice tra il grattacielo e l'elettrocardiogramma. Ma io t'amo. Tu m'ami. Mi baci, mi penetri, penetro in te. Antimateria ancora più violenta del corpo”.
KING KONG
Alla vista dello spot da brivido dell’ennesimo remake, Kong: Skull Island di Jordan Vogt-Roberts, che sembra mostrare un bestione di addirittura di trenta metri, omaggio, più che all’antico sentimento rivoluzionario, alla grigliata dei suprematisti ariani nei boschi dell’Alabama, viene però il dubbio che l’eroe nostro sia davvero multiuso come un coltello svizzero, come si è già detto ora un po’ Beppe Grillo ora un po’ Salvini ora un po’ Renzi con la Boschi in pugno.
E chissà che non sia una declinazione ulteriore del caro gorilla, la “scimmia nuda” che balla dell’insignificante motivo di Gabbani vintore a Sanremo, la stessa che però ha trovato subito in rete anche una versione Lgbt, dove “la scimmia sta a 90”. Forse sperare che in epoche di pensiero debole segnate perfino dalla depilazione maschile totale e della cura modellata delle sopracciglia, venute meno le speranze di palingenesi, un semplice gorilla, sebbene assai prestante, potesse supplire alla morte delle idee era un po’ troppo, e infatti l’anno venturo arriva Godzilla che invece non è neppure populista, ma sembra tuttavia che i suoi film piacessero molto anche a Pinochet.