Rocco Moliterni per la Stampa
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«La cucina è una bricconcella; spesso e volentieri fa disperare ma dà anche piacere, perché quelle volte che riuscite o avete superata una difficoltà, provate compiacimento e cantate vittoria»: queste parole di Pellegrino Artusi sembrano scritte oggi per quelli che durante il lockdown si sono cimentati con imprese più o meno impossibili come fare il pane o la pizza in casa e hanno spedito agli amici via WhatsApp fior di foto con le mani in pasta.
Eppure Artusi, di cui ricorre il 4 agosto il bicentenario della nascita, le ha scritte più di un secolo fa, nella prefazione al suo libro La scienza in cucina e l'arte di mangiare bene, che sta alla gastronomia italiana come I promessi sposi alla nostra letteratura.
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Se infatti Manzoni dopo essersi «sciacquato i panni in Arno» con il suo romanzo codifica la lingua dell'Italia unita, Artusi, approdato a Firenze in età matura dalla natìa Forlimpopoli, fa lo stesso con la cucina, creando un ricettario che realizza a tavola l'Unità del Paese da poco raggiunta.
Parliamo di uno straordinario successo editoriale (non solo per l'epoca) se si pensa alle 35 edizioni e alle oltre 280 mila copie vendute nell'arco di qualche decennio: viene pubblicato per la prima volta (con 475 ricette) nel 1891, quando Artusi ha già settant' anni.
L'autore, che morirà nel 1911, fa in tempo a vederne l'«imprevedibile» e crescente successo. Imprevedibile più per gli editori dell'epoca che per Artusi stesso: lui crede a tal punto nel suo lavoro, frutto di ricerche e di sperimentazioni di decenni, che, visti i tanti rifiuti di un mondo editoriale che non gli dà credito in quanto «parvenu» (aveva pubblicato solo un saggio su Foscolo, altra sua passione, passato quasi inosservato), decide di farlo uscire a sue spese presso la tipografia Landi di Firenze.
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«Qui è bene a sapersi», scrive nella prefazione a una delle tante edizioni, «che gli editori generalmente non si curano più che tanto se un libro è buono o cattivo, utile o dannoso: per essi basta, onde poterlo smerciar facilmente, che porti in fronte un nome celebre o conosciutissimo, perché questo serva a dargli la spinta e sotto le ali del suo patrocinio possa far grandi voli». Ma paradossalmente a non credere in lui e nel libro sono all'inizio anche i suoi concittadini di Forlimpopoli. Ne manda due copie a una lotteria di beneficenza in sostituzione del suo saggio su Foscolo: «Non l'avessi mai fatto, perché mi fu riferito che quelli che le vinsero invece di apprezzarle le misero alla berlina e le andarono a vendere dal tabaccaio».
En passant da questa parole traspare l'ironia che gli fu di aiuto per superare altri momenti difficili. Di famiglia agiata (i suoi erano proprietari terrieri e commercianti) aveva deciso di lasciare Forlimpopoli dopo un terribile episodio: la banda del brigante Passatore che imperversava nello Stato Pontificio una notte rapinò e saccheggiò la sua casa e fece violenza a una delle sorelle che non si riprese più. Per prudenza del suo libro Artusi stampa solo mille copie, poi altre mille, poi fa una terza edizione di duemila, e ancora la quarta e la quinta di tremila ciascuna.
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A questo punto La scienza in cucina prende il volo, le copie si moltiplicano, anche perché a ogni ulteriore edizione l'autore aggiunge nuove ricette fino ad arrivare a quasi mille. C'è da dire che a dargli una mano nella promozione è anche l'interesse che mostra per il volume, e l'invito che ne fa ad acquistarlo nelle sue conferenze pubbliche, Paolo Mantegazza, uno dei primi divulgatori del darwinismo in Italia nonché mille altre cose: fisiologo, patologo, igienista oltre che senatore del Regno. Mantegazza intuisce la modernità dell'Artusi, una modernità che rende l'opera e il suo autore ancora attuali.
Tanto attuali che il giallista Marco Malvaldi, l'autore della celebre serie dei «Delitti del Barlume», ha fatto di Artusi anche una sorta di detective, protagonista del romanzo Il borghese Pellegrino (tra i personaggi anche il professor Mantegazza) da poco uscito da Sellerio, dopo averlo già messo al centro, cinque anni fa, di un altro giallo dal titolo Odore di chiuso. Quali sono gli elementi di questa modernità? Artusi anticipa cose che oggi ci sembrano scontate ma che a fine Ottocento non lo erano. Il marketing innanzitutto: individua un segmento di mercato ben preciso e a quello si rivolge.
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Sono le donne e le massaie della nuova borghesia italiana con le quali instaura un dialogo fitto di corrispondenze e incontri: si dimostra interessato a quello che oggi definiremmo il feedback.
Chiede non solo il giudizio sulle ricette del suo libro ma anche di inviargliene di nuove: lui le proverà e se funzioneranno le pubblicherà nelle successive edizioni. Insomma riesce a creare anche senza Facebook quella che oggi chiameremmo una «community» della cucina. Artusi segue un metodo che definisce scientifico: tutte le ricette vengono provate e riprovate nella cucina di casa che nulla avrebbe da invidiare a quella di Masterchef o delle altre mille odierne trasmissioni televisive dedicate al «food».
Come fidi scudieri aveva il cuoco romagnolo (di Forlimpopoli anche lui) Francesco Ruffilli e la governante toscana Marietta Sabatini: a entrambi lasciò tra l'altro i diritti del suo bestseller. Scapolo e senza eredi (amava le belle donne anche se non si sposò mai), lasciò gli altri averi alla città natale, che lo ricorda ogni anno con una grande kermesse, la Festa artusiana.
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Quest' anno si sarebbe dovuta celebrare ad agosto la XXIV edizione, che prevedeva come clou una notte bianca del cibo il giorno della nascita del gastronomo. Il Covid ha rotto le uova nel paniere e non si sa ancora se e come si riuscirà a festeggiare. Del resto anche in vita Artusi ebbe a che fare con virus e vibrioni: una sera a Livorno mangiò un minestrone che gli diede tutta la notte forti dolori di stomaco. Tornato a Firenze scoprì che nella città labronica era scoppiato il colera e che il padrone della casa dove aveva dormito ne era rimasto vittima. Archiviò la cosa scrivendo una nuova ricetta di minestrone.
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