Antonella Viola per “La Stampa”
genialità
Recentemente, durante un'intervista, una giornalista mi ha domandato quando e come io avessi scoperto il mio talento, una domanda che può sembrare semplice e banale, ma che mi ha costretto a qualche istante di silenzio perché, a differenza di tutte le altre alle quali ho dovuto rispondere negli ultimi anni, questa io non me l'ero mai posta. E, con la massima sincerità, alla fine ho risposto che non capivo la domanda perché io, come la maggior parte delle persone, non ho nessun talento.
Non è il talento che mi ha portato a laurearmi col massimo dei voti, a entrare in uno dei migliori istituti di ricerca del mondo, a pubblicare sulle più importanti riviste scientifiche, a vincere premi, diventare professoressa ordinaria a Padova e neppure a diventare un nome di riferimento nella divulgazione scientifica.
ANTONELLA VIOLA
Non un vago concetto come il talento, ma la passione per la conoscenza, che non mi ha fatto mai sentire il peso delle ore dedicate a studiare, insieme all'impegno e alla serietà con cui affronto ogni compito che mi viene assegnato o sfida che mi pongo. E una buona dose di umiltà, che mi consente di considerarmi fallibile, di piangere per ogni errore ma di accettarlo, comprenderlo, superarlo e tentare di trasformarlo in occasione di crescita.
Molto spesso, parlando con i ragazzi, sento che la parola talento è un macigno troppo pesante per le loro forze: la società chiede loro di essere speciali, unici, di scoprire il loro talento e di farsi strada nel mondo grazie a questa sorta di benedizione acquisita alla nascita. E poiché non riescono a identificarlo, si sentono inutili, perdenti, sconfitti prima ancora di iniziare a giocare.
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Eppure basta leggere la biografia di qualche grande campione dello sport o di persone di successo per rendersi conto che l'unica caratteristica che li accomuna tutti è la forza di volontà, che può essere alimentata solo dalla passione per quello che si è scelto di fare nella vita.
Questo non significa che siamo tutti geneticamente uguali e che abbiamo quindi tutti le medesime capacità. La genetica conta e in alcuni casi è un limite: se invece di studiare biologia io avessi deciso di diventare una ballerina classica o una cantante lirica avrei sicuramente dovuto rinunciarvi dopo un paio di umilianti tentativi; tuttavia, nei limiti della ragionevolezza, i geni che ereditiamo alla nascita offrono solo una base di partenza, sulla quale poi agisce l'ambiente.
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Se quindi è vero che le differenze individuali esistono, è altrettanto evidente che il mito del talento o del genio, quando considerato una qualità innata necessaria per avere successo nella vita e per trovare la propria collocazione nel mondo, rappresenta un disincentivo all'impegno e un enorme freno alla realizzazione personale.
Più che chiedere ai ragazzi di scoprire il loro talento, dovremmo quindi permettere loro di far emergere desideri, sogni e passioni. E insegnare, attraverso l'esempio, che nulla si ottiene senza fatica e senza fare i conti con errori e fallimenti.
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