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    IL NECROLOGIO DEI GIUSTI - BELLISSIMO, NERO, ATTIVISTA, ATTORE, CANTANTE, HARRY BELAFONTE FU MOLTO DI PIÙ DI UN ARTISTA NELLA SECONDA METÀ DEGLI ANNI ’50. OLTRE A LOTTARE PER I DIRITTI CIVILI DAI TEMPI DEI FREEDOM RIDERS E DI MARTIN LUTHER KING, CI APRÌ UN MONDO COMPLETAMENTE SCONOSCIUTO. LUI STESSO SI DEFINIVA NON UN ARTISTA CHE ERA DIVENTATO ATTIVISTA MA ESATTAMENTE IL CONTRARIO. AL PUNTO CHE CON TUTTA LA SUA POPOLARITÀ, MOLTE DELLE SUE SCELTE FINIRONO PER PENALIZZARLO SOPRATTUTTO A HOLLYWOOD… - VIDEO


     
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    Marco Giusti per Dagospia  

     

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    Da bambino, ascoltando i suoi 45 giri di calypso, mi sembrava che nessuno cantasse come Harry Belafonte. Ascoltavo per ore “Banana Boat” o “Coconut Woman” senza capire una sola parola di inglese a parte banana. Bellissimo, nero, attivista, attore, cantante, Harry Belafonte fu molto di più di un artista nella seconda metà degli anni ’50. Oltre a lottare per i diritti civili dai tempi dei Freedom Riders e di Martin Luther King, ci aprì un mondo, artistico musicale politico, per noi completamente sconosciuto.

     

    harry belafonte martin luther king jr. harry belafonte martin luther king jr.

    Lui stesso si definiva non un artista che era diventato attivista ma esattamente il contrario. Al punto che con tutta la sua popolarità, molte delle sue scelte finirono per penalizzarlo soprattutto a Hollywood. Ma la sua esplosione come cantante e attore negli anni '50 con spettacoli e dischi di calypso fu clamorosa. Il suo disco, “Calypso”, che comprendeva “Banana Boat” e “Jamaica Farewell” nel 1956 rimase in cima alla classifica di Billboard per 31 settimane vendendo un milione di copie.

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    Senza pensare al successo nel 1954 di un film importante come "Carmen Jones" diretto da Otto Preminger dove non resisteva alla Carmen di Dorothy Dandridge. E nella scena della seduzione ci rendevano conto di quanta carica sessuale ci fosse fra di loro. Era qualcosa di totalmente nuovo non solo per il pubblico nero, che finalmente trovava dei protagonisti in cui identificarsi, ma anche per il pubblico bianco, che nella Hollywood puritana degli anni ’50 vedeva finalmente aprirsi un varco.

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    Nato come Harold George Bellanfante Jr nel 1927 a Harlem, da una famiglia povera delle West Indies, da padre martinicano cuoco in giro per le navi, e da una madre che nel 1936 prova a riportare la famiglia in Giamaica per qualche anno per poi ritornare definitivamente a Harlem nel 1940, studia recitazione a New York con Marlon Brando e Tony Curtis, lavora nell’American Negro Theatre assieme a Sidney Poitier, ma arriva al successo con spettacoli e dischi legati al calypso e alla cultura musicale delle isole già alla fine degli anni ’40 dove, a differenza, dei giovani cantanti neri del tempo, rifiuta gli arrangiamenti jazz e si rifà alla tradizione folklorica caraibici diventando un balladeer alla Burl Ives.

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    Per il suo successo immediato viene chiamato “The Cinderella gentleman” sui giornali o, come lo aveva definito Walter Winchell, il Lena Horne uomo. Diventa presto popolarissimo grazie a spettacoli teatrali, a Broadway, recital, apparizioni in tv. E alla fine il cinema, prima col piccolo dramma realistico “Bright Road” accanto a Dorothy Dandridge e poi con il musical kolossal “Carmen Jones” di Otto Preminger ancora accanto a Dorothy Dandridge, dove però venne doppiato da un tenore.

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    La maggior parte dei suoi fan, scrive oggi “The New York Times”, era bianca. Aggiungerei a bianca, anche colta e sofisticata. Il suo film successivo, “L’isola nel sole” di Robert Rossen, dove avrebbe dovuto avere una storia con Joan Fontaine, venne massacrato al montaggio, al punto che non si capiva bene cosa accadesse tra i due, ma già l’idea di vederli vicini dette così fastidio al pubblico del Sud che Nella South Carolina venne vietato farlo vedere in sala. Da parte sua, Belafonte, che era la prima scelta per “Porgy and Bess”, l’opera di George Gershwin prodotto da Samuel Goldwyn nel 1957 e diretta prima da Rouben Mamoulian poi da Otto Preminger, rifiutò il ruolo di Porgy perché gli sembrava che desse un’immagina stereotipata del nero.

     

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    La parte andò al suo amico Sidney Poitier, che fu quasi obbligato a accettarla. Ma questo rifiuto probabilmente costò cara a Belafonte, che vide la sua carriera nel cinema decisamente scomparire. Di fatto gira pochissimi film, rispetto alla sua popolarità. L’apocalittico “La fine del mondo” di Ranald MacDougall nel 1959, il bellissimo noir “Strategia di una rapina” di Robert Wise nello stesso anno per poi rimanere fermo fino al 1970, dove ricomparirà a fianco di Zero Mostel nel curioso “The Angel Levine” di Jan Kadar tratto dal romanzo di Bernard Malamud.

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     Lo recupera davvero al cinema il suo amico/rivale Sidney Poitier in piena blaxploitation col curioso western all-black “Non predicare… spara” dove faranno coppia da protagonisti. Poitier, in disaccordo con il regista bianco Joseph Sargent, finirà per dirigerlo lui stesso. Non solo. Seguiterà nella regia richiamando Belafonte per una sorta di imitazione del Padrino di Marlon Brando in “Uptown Saturday Night”, dove troveremo insieme a loro Bill Cosby, Richard Pryor, Calvin Lockhart. Siamo già in un mondo del tutto diverso rispetto a quello di “Carmen Jones”. Ritroveremo Belafonte solo in piccole caratterizzazioni negli anni successivi, “Kansas City” e The Layer” di Robert Altman, “Bobby!” di Emilio Estevez, “BlackKklansman” di Spike Lee.

     

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     Ebbe tre mogli, la prima, Marguerite Byrd sposata nel 1948 che gli dette due figli, la seconda, Julia Robinson, unica ballerina bianca del gruppo di Katherine Dunham, sposata nel 1958 con un matrimonio che fece scalpore sia tra i bianchi che tra i neri. The Amsterdam News scrisse, “Molti neri si domandano perché un uomo che si è avvolto della bandiera di giustizia per la sua razza abbandoni una moglie nera per una moglie bianca”. Da Julia Robinson ebbe altri due figli. E infine ebbe una terza moglie, sposata nel 2008, la fotografa Pamela Frank. "Riguardo alla mia vita, non ho lamentele", ha scritto nella sua autobiografia. "Eppure i problemi affrontati dalla maggior parte degli americani di colore sembrano terribili e radicati come lo erano mezzo secolo fa".

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