Marco Giusti per Dagospia
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Con quella faccia, quasi un teschio, con gli zigomi sporgenti e l’aria beffarda, non poteva che fare il cattivo, il killer, l’assassino, meglio se italo-americano, messicano o italiano. Il suo ruolo più “femminile” fu quello di “Mother”, il terribile pusher di “Un cappello pieno di pioggia” di Fred Zinneman che gli aprì per sempre le porte del cinema. I tossici lo adorarono. Ma se a Hollywood era destinato a fare il cattivo a vita, in Italia ebbe anche ruolo da eroe, da protagonista, non diciamo buono, ma positivo nella stagione dei poliziotteschi di Fernando Di Leo e Umberto Lenzi.
Se ne va l’ultimo dei grandi duri di Hollywood, Henry Silva, quasi 96 anni, una carriera cinematografica spesa tra Los Angeles e Roma a spaventare donne e bambini indifesi, a vedersela con terribili gangster che doveva eliminare come da contratto. Nato a Brooklyn, New York, nel 1926, da madre spagnola o forse portoricana e padre siciliano che se ne andò di casa quando aveva un anno, imparò solo a otto anni a parlare inglese, e fece un po’ di tutto, prima di capire, intorno ai tredici anni, che voleva fare l’attore.
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“Sono cresciuto a New York nella Harlem ispanica”, racconta in un’intervista del 1963, dove lui stesso dice di essere portoricano e non spagnolo, “La violenza era la password della giornata. Ma c’erano anche musica e risate. Sono convinto che c’era molto violenza anche a Park Avenue, ma la chiamano in un altro modo”. Vince un concorso da attore all’Actor’s. E Elia Kazan lo porta subito sul set di “Viva Zapata”, 1952, più credibile come novello rivoluzionario messicano del truccatissimo protagonista, Marlon Brando.
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Ma a capirlo ancora meglio è Budd Boetticher che gli affida subito il ruolo assieme a Richard Boone di uno dei cattivi che Randolph Scott deve eliminare nel fondamentale “I tre banditi”, 1956. Una faccia simile l’aveva solo Jack Palance. Come “Mother”, il pusher bastardo di “Un cappello pieno di pioggia” di Fred Zinnemann con Frank Sinatra, ruolo che aveva interpretato anche a Broadway alla perfezione, si rivela al mondo di Hollywood come un nuovo cattivo di sicura presa popolare. Interpreta western, grandi come “Sfida nella città morta” di John Sturges e “Bravados” di Henry King, e piccoli come “Il sentiero della rapina” di jesse Hibbs e “I ribelli del Kansas” di Melvin Frank, compare in “Verdi dimore” di Mel Ferrer.
Entra nel giro del Rat Pack di Sinatra-Lawford-David-Bishop con “Colpo grosso”, cioè l'originale “Ocean’s Eleven” di Lewis Milestone, dove interpreta il gangster Roger Corneal. Sembra nato per fare il gangster italo-americano. Nel 2001 farà una comparsata anche nel remake di Steven Soderbergh. Frank Tashlin, regista, e Jerry Lewis, protagonista, lo vogliono come fratello antipatico di Jerry nel capolavoro “Il cenerentolo”, dove ha alcune delle scene più divertenti del film, che lo vedono subire qualsiasi cosa da un impacciato Jerry. Anche se non ha interpretato molti ruoli comici.
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Qui Henry Silva è perfetto, degno erede degli attori come Billy Gilbert che devono subire dai comici, come Stan Laurel, il maestro di Jerry Lewis. Lo ritroviamo anche in “Tre contro tutti” western comico di John Sturges col Rat Pack. Torna a fare il duro, in “Va’ e uccidi”, 1962, di John Frankenheimer, o come il terribile killer italiano protagonista, Salvatore Giordano detto Johnny Cool, in “Johnny Cool, messaggero di morte” di William Asher, 1963.
E’ uno dei tanti attori americani che Sergio Leone cerca come protagonista del suo primo western, “Per un pugno di dollari”. Ma costa troppo. Intanto gira in Jugoslavia una sorta di pre-Sporca dozzina diretto da Roger Corman, “Cinque per la gloria” con Stewart Granger, Raf Vallone, Edd Byrnes e in Messico “La taglia” di Serge Bourguignon con Max Von Sydow, in Francia “Da New York la mafia uccide” di Raoul Levy, il produttore amico di Godard. Ha il ruolo di un capo pellerossa nel modesto “I dominatori della prateria” di David Lowell Rich.
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Così, quando arriva l’offerta di Dino De Laurentiis di girare un paio di film in Italia, stavolta accetta. Lo troviamo come cattivo, Garcia Mendez, nel curioso primo western di Carlo Lizzani “Un fiume di dollari”, poi come antagonista di Patrick O’Neal nello stravaganza eurospy “Matchless” di Alberto Lattuada. Presto viene assorbito dalle produzioni minori e lo troviamo in film come “Assassination” di Emilio P. Miraglia, dove ha un doppio ruolo, “Quella carogna dell’ispettore Sterling”, nel bellico “Probabilità zero” di Maurizio Lucidi, scritto da Dario Argento.
Le offerte di Hollywood non sono però migliori, visto il ruolo di cattivo di secondo piano in un filmetto come “L’incredibile furto di Mister Girasole” di Jerry Paris con Dick Van Dyke e Edward G. Robinson. Meglio fare il protagonista in Italia o in Francia. Incontra Fernando Di Leo nel ruolo del killer bianco in coppia col killer nero Woody Strode in “La mala ordine”, 1972, in una scena che verrà ripresa direttamente da Tarantino in “Pulp Fiction” con la coppia John Travolta-Samuel L. Jackson.
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Poi lo ritroveremo ne “Il boss”, sempre di Di Leo, ne “Il re della mala” di Jurgen Roland, “Quelli che contano” di Andrea Bianchi, nel francese “L’insolent” di Jean-Claude Roy. Umberto Lenzi lo chiama per poliziotteschi come “Milano odia: la polizia non può sparare”, “L’uomo della strada fa giustizia”, “Il trucido e lo sbirro”. Torna a Los Angeles alla fine degli anni ’70, dove gira anche qualche buon film, “Tiro incrociato” di Stuart Rosenberg, “Alligator” di Lewis Teague, “Pelle di sbirro” di e con Burt Reynolds, ma non resiste al richiamo degli italiani e dei francesi. Al punto che girerà ancora con Di Leo, “Razza violenta” e “Killer contro killers", o con Jacques Deray, “Le marginal”.
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Ma accetterà un po’ di tutto alla fine degli anni ’90. Film di Wim Wenders, “Crimini invisibili”, e film di Ezio Greggio, “Il silenzio dei prosciutti", fino a chiudere la carriera con due bellissimi film, “Ghost Dog” di Jim Jarmusch e “Ocean’s Eleven” di Steven Soderbergh.
Quando l’ho intervistato a Los Angeles, non aveva nessuna nostalgia per il cinema e quello che aveva vissuto. Aveva fatto una bella vita, in fondo la carriera che pensava di fare. Era tra i pochi che non avevano buttato soldi inutilmente e si manteneva ancora molto in forma. Ricordava come amici italiano sia Fernando Di Leo che Umberto Lenzi, il regista che urlava sempre. Ma era stato un gran professionista, in America come in Italia. Grande faccia da cinema.
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