Marco Giusti per ''il manifesto''
Sergio Zavoli
sergio zavoli processo alla tappa
Taccone, Pasolini, Adorni, Bitossi, Zilioli, Motta, Gimondi, Anquetil, Merckx… Me li ricordo tutti perfettamente avvolti in quel meraviglioso bianco e nero della Rai anni ’60. Per chi non si è persa una sola puntata del “Processo alla tappa”, storica trasmissione che ragionava in termini appunto di processo, alternando un linguaggio colto a quello più popolare per giudicare chi veramente aveva vinto e chi avrebbe meritato di vincere, Sergio Zavoli, scomparso oggi a 96 anni, era un personaggio amato ma anche un po’ odiato. Amato perché quel tipo di programma, partito con sei anni alla radio e poi sette in tv (1962-69), era davvero un’idea sua e un modello di tv sua, quasi sempre più forte della gara che vedevamo prima con l’immagine che spesso strappava e gli arrivi commentati dal grande De Zan.
Odiato, e lo ricordo bene, perché nei suoi interventi, nelle sue interviste ai ciclisti meno istruiti c’era sempre una vena tra il mieloso, il patetico, che mascherava una qualche superiorità paternalistica. Senza essere ancora coscientemente rosselliniani, la presenza così realistica al Processo di un Pasolini o di un Taccone, forse il ciclista più sanguigno che avessimo mai visto al tempo, mostrava la strada popolare e, per noi, comunista, del fare televisione e magari di parlare di sport.
sergio zavoli processo alla tappa 2
Ma non ci rendevamo conto che il teatrino, che prevedeva la parte realistico-rosselliniana e quella più lacrimosa zavoliana era stato imbandito e preparato con cura dallo stesso Zavoli. Faceva cioè parte dello stesso gioco. Come l’offrire a tutti, ma proprio a tutti, l’occasione di sganciare una bomba in diretta tv, perché allora quello era il programma seguito d’Italia… Ancora oggi il Processo alla tappa” rimane una delle punte più alte e meravigliose di tutta la nostra esperienza televisiva di spettatori.
sergio zavoli processo alla tappa 3
Certo, Zavoli è stato anche un grande documentarista e un grande giornalista. Per la rubrica “Incontri”, a cura di Pio De Berti Gambini, dette vita a programmi leggendari. “Un’ora e mezzo con Federico Fellini”, ad esempio, dove, oltre a intervistare tutti, da Giulietta Masina a Leopoldo Trieste, da Sergio Amidei a Nino Rota, da Anouk Aimée a Yvonne Forneaux, oltre a parlare con Fellini sapendo tutto di lui, poteva chiedere una battuta sul regista a Jean-Paul Sartre, Evtushenko, Arthur Miller. Che non sono due domande marzulliane, con tutto il rispetto, a Walter Veltroni o a Goffredo Fofi o alle star di oggi, da Favino a Cortellesi.
sergio zavoli
Altri tempi, si dirà, e altra televisione. Sempre per “Incontri” realizzò un celebre programma sul Dottor Schweitzer, un altro su Werner Von Braun, l’inventore dei V-2 poi a capo della Nasa pronto a partire per lo sbarco sulla luna, un altro su Martin Luther King. Intervistò anche personaggi meno noti, come il comandante della nave Raffaello, Oscar Libari, o il direttore tecnico della Nazionale Edmondo Fabbri. Anche lì ci fu chi arricciò il naso di fronte al metodo Zavoli. Alle interviste fatte, come si scrisse allora “con sotto un braccio Cuore e sotto l’altro De Sade”. Così c’è chi trovava un po’ fuori luogo l’ironia di certe sue domande a Fabbri, odiatissimo in Italia dopo la sconfitta epocale con la Corea, Altre volte, leggo su un vecchio “Corriere della Sera”, “la crudeltà di Zavoli ha avuto la raffinatezza dei silenzi, lunghi minuti di vuoto della colonna sonora, la telecamera che scruta il volto del vecchio uomo di mare…”.
sergio zavoli 1
Al punto che “c’è il sospetto che da queste interviste non esca il vero personaggio, ma il personaggio che Zavoli vorrebbe fosse e che cerca di ottenere con forzature a parer nostro inopportune”. Ma non è questo, alla fine, fare televisione? Per Tv7, altro storica testate del TG, realizza un celebre reportage in Congo che prese il posto di un dramma di Dessì che avrebbe potuto dispiacere parecchio al Ministro Gonella. Ma il suo lavoro in Congo era notevole, come lo era il suo programma sulla guerra d’Algeria nel 1962, che gli procurò parecchie inimicizie in Italia fra i sostenitori dell’O.A.S. Leggo che nel 1966, in un sondaggio fatto dalla “Domenica del Corriere” Sergio Zavoli è settimo come popolarità fra i “televisivi”, dopo Gino Cervi, Corrado, Alberto Lupo, Johnny Dorelli, Enzo Tortora e Pippo Baudo. Ma è anche l’unico giornalista e l’unico che faccia programmi importanti.
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Firma, assieme a Enzo Biagi, i testi di un film sul Duce nel 1962, “Benito Mussolini”, diretto da Pasquale Prunas. In un mondo che tendeva a dividere ieri più che oggi ciò che è tv dal cinema, i testi di Biagi e Zavoli non piacciono ai critici. Troppo invadenti. Con il cinema non ha mai avuto buoni rapporti, anche se è uno stagista alla regia su Il grido di Michelangelo Antonioni e è davvero amico fraterno di Fellini.
Ma i suoi programmi migliori, quelli che vincono i premi del tempo, sono un documentario sulle monache di clausura del 1957, Clausura, uno sulla casa di Alfredo Panzini, un servizio sulla divisione di due gemelle siamesi. Pura televisione. E in televisione, a parte le parentesi dirigenziali, direttore del Tg1 nel 1969, del Gr1 nel 1976, addirittura Presidente della Rai dal 1980 al 1986, realizzerà programmi storici che Paolo Mieli, francamente, si sogna. “Nascita di una dittatura” del 1972, “Viaggio intorno all’uomo”, e “La notte della repubblica” del 1989, che è forse il programma più ricco, documentato e completo che si sia mai fatto sul periodo della lotta armata in Italia con interviste memorabili.
Roberto Sergio Sergio Zavoli foto mezzelani gmt
Mi ricordo che a “Blob” non era facile inserire le interviste di Zavoli tratte da “La notte della repubblica”, troppo drammatiche. Ma avevano una forza di verità, di documento che mi fecero tornare ai tempi del “Processo alla tappa”. Qui però c’era uno Zavoli ormai vecchio che non giudicava, che non indicava, che non si sentiva superiore. Grande televisione.