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    "IL CALCIO NON È PIÙ UNA GARA FISICA, MA MENTALE E DIVENTERÀ NOIOSO" - IL "NEW YORK TIMES" SI SCONTRA CON I "CERVELLONI" DEL CALCIO E I DATI CHE HANNO RESO LO SPORT TROPPO PREVEDIBILE: "IL CALCIO È ARRIVATO A COMPRENDERE I SUOI MECCANISMI INTERNI E I SUOI RITMI SILENZIOSI" - "PER 90 MINUTI, LE DUE SQUADRE NON POSSONO ESSERE SORPRESE, SANNO ESATTAMENTE COSA STA CERCANDO DI FARE L’ALTRA, MA LA FAMILIARITÀ GENERA DISPREZZO E DI QUESTO PASSO..."


     
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    Da www.ilnapolista.it

     

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    Il calcio “ha imparato a considerarsi un esercizio intellettuale oltre che atletico”. E questa sua deriva alla ricerca ossessiva dei dati e delle informazioni lo sta portando ad una sorta di stallo: la troppa conoscenza sta uccidendo il gioco, e non è detto che sia un bene per un’economia che si basa sul divertimento del pubblico. È la tesi di Rory Smith, che nella sua newsletter sul New York Times celebra la dipartita dell’effetto sorpresa.

     

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    Smith parla di un calcio ormai “pressurizzato”. E di squadre che imparano costantemente dagli avversari, di partite che generano dati su dati, che gli analisti esaminano e trasferiscono ai calciatori.

     

    “Quando giochi contro qualcuno due volte a stagione, ogni stagione, inizi a vedere i piccoli indizi”, ha recentemente detto alla Bbc il difensore del Newcastle Dan Burn. Di norma, dice Burn, le squadre vanno in campo “sapendo già cosa accadrà”.

     

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    Le eccezioni sono poche, e resistono altrettanto poco. Il tempo di studiarle e il gioco è fatto. “Guarda il Leeds di Bielsa”, ha detto Burn. “Quel primo anno, i giocatori correvano dappertutto e nessuno aveva la minima idea di cosa fare”. Dopo un anno, però, è finita la magia. Gli altri avevano imparato come fare. È un discorso che potrebbe essere appiccicato alla parabola lampo del Napoli di Spalletti, che già in primavera aveva un po’ esaurito la sua forza esplosiva e dirompente.

     

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    “È difficile sopravvalutare quanto il calcio sia cambiato negli ultimi 30 anni – scrive il Nyt – È più veloce, più in forma, più tecnico e più tatticamente sofisticato di quanto non sia mai stato. È più ricco, più popolare, più affascinante e più potente: allo stesso tempo un colosso, un leviatano e un egemone”. Ma soprattutto il punto “è che conosce molto di più su se stesso che in qualsiasi altro momento della sua storia. In un modo considerato eretico fino a tempi relativamente recenti, il calcio è arrivato a comprendere i suoi meccanismi interni e i suoi ritmi silenziosi. Ha imparato a considerarsi un esercizio intellettuale oltre che atletico”.

     

    Smith scrive che è una cosa “inevitabile nell’era dell’informazione (intesa come era dei dati). Le squadre sono incentivate – obbligate, in effetti – a cercare qualsiasi vantaggio che possa aumentare le loro possibilità di vittoria. La conoscenza, dopo tutto, è potere“.

     

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    “Il problema, però, è che il calcio, come tutti gli sport, ha un altro imperativo: divertire. La fiorente economia di questo sport si basa sull’idea che le persone pagheranno per guardarlo, tramite biglietti a prezzi esorbitanti o pacchetti di abbonamento a prezzi esorbitanti. In cambio, chiederanno uno spettacolo avvincente e coinvolgente. Questo patto è sostanzialmente più difficile di quanto spesso ammettiamo. Tutti nel calcio, dai dirigenti ai giocatori, agli allenatori e agli analisti, sono pagati per vincere. Se non vincono, tendono a non essere più pagati. Questa è la metrica delle prestazioni che conta di più per loro. Che il resto di noi lo trovi divertente o meno è, nella migliore delle ipotesi, una considerazione secondaria”.

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    E se il trend dice che il calcio con gli anni è “migliorato” nella sua estetica, per il Nyt il pericolo è che ad un certo punto possa “entrare in stallo”: “il calcio non è più una gara fisica – il balletto fluido e caotico che il calcio crede di essere – ma mentale, non tanto una serie di battaglie individuali quanto una serie di manovre strategiche collettive. Per 90 minuti, due squadre che non possono essere sorprese, che sanno esattamente cosa sta cercando di fare l’altra, si impegnano in una serie di finte, spostamenti e astuzie mentre tentano di identificare un punto debole, di progettare una vulnerabilità. Il vincitore è colui che riesce a creare anche il più breve degli squilibri”.

     

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    “È possibile che la conclusione naturale non sia un’ulteriore crescita ma uno stallo indissolubile, dove lo sport non è più sollevato dalla sua conoscenza ma da essa gravato. La familiarità, dopo tutto, genera disprezzo”.

     

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