Tommaso Labate per corriere.it
dario franceschini foto di bacco
Per dire della cifra stilistica del suo fare politica, al termine di una delle poche sfide personali finite male, da sconfitto sorridente era salito sul palco che celebrava il vincitore e gli aveva sollevato il pugno, come fa l’arbitro nell’atto di decretare l’esito di un incontro di boxe.
Era l’ottobre del 1999, la sfida era per la segreteria del Partito popolare italiano, Pierluigi Castagnetti aveva appena vinto e lui si era classificato secondo. Da quel giorno sono passati più di ventidue anni. Due decenni abbondanti in cui Dario Franceschini ha modellato quotidianamente la professione della politica in tutte le declinazioni possibili che prevedessero tutti i possibili scenari meno uno, la scomparsa dal proscenio.
dario franceschini
Maggioranza e opposizione, al governo o al partito, vicesegretario o segretario o comunque potentissimo capocorrente, capogruppo, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Massimo D’Alema nel 1999, poi ministro in tutti i governi degli ultimi dieci anni esclusi ovviamente quelli guidati da Silvio Berlusconi e Mario Monti. Un profilo perfetto, e questo glielo riconoscono sia gli amici (tantissimi) che i nemici (molti meno), per un presidente della Repubblica di quelli eletti dalla quarta votazione in poi, sorretti da una maggioranza chiara e trainati da un partito compatto.
dario franceschini foto di bacco
Al giro di ricognizione del gran premio del Quirinale, non è dato sapere se Franceschini in cuor suo si senta in corsa per succedere al vecchio amico Sergio Mattarella oppure no. Di certo, in omaggio all’antico detto popolare secondo cui «si faccia quel che si deve e accada quel che può», decisamente in auge tra i politici della Prima Repubblica (Pietro Nenni lo ripeteva spesso), il ministro dei Beni culturali sente di aver svolto alla perfezione la prima parte della ricetta: far quello che si deve. E quello che si deve, nell’ottica di politico di razza che sente di avere carte quantomeno in regola per ambire al Colle più alto, è inabissarsi, defilarsi, far di tutto pur di uscire dai totonomi, in omaggio alla «strategia del palombaro» che in passato ha premiato tantissimi quirinabili poi diventati presidenti grazie alla scelta di camminare sempre sotto il pelo dell’acqua. Come un palombaro.
Nel chiuso dei Consigli dei ministri, negli ultimi undici mesi Franceschini è diventato non tanto o non solo l’antagonista di Draghi raccontato in molti retroscena; quanto, piuttosto, il custode di quel primato della politica oggi diluito dalla prevalenza dei tecnici. Raccontano alcuni suoi colleghi che il ministro dei Beni Culturali sia stato il primo a contrastare «l’andazzo del “riferisco”» dei pre-Consigli.
draghi franceschini
Di che cosa si tratta? «Semplice», racconta un componente di governo, «”riferisco” è la parola secca con cui il ministro dell’Economia Daniele Franco risponde tutte le volte che il capo-delegazione di un partito si impunta su un provvedimento, nel senso che lui lo accoglie riservandosi poi di riferire a Draghi». Ecco, sul rinnovo del bonus cultura ai diciottenni, che il presidente del Consiglio avrebbe voluto rimodulare prevedendolo solo per i redditi più alti, Franceschini si è impuntato prima di fronte al «riferisco» del ministro dell’Economia, poi davanti a Draghi. Vincendo quello che è parso, nella forma ancor più che nella sostanza, il raro caso di una sfida a braccio di ferro andato scena a Palazzo Chigi nell’ultimo anno.
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Allievo forse prediletto di Franco Marini, che della corsa al Quirinale aveva sperimentato il dramma di partire favorito sia nel totonomi (1999, poi fu eletto Ciampi) che nella conta in aula (2013, finì col bis di Napolitano), da mesi Franceschini è scomparso dai radar della scena pubblica. Forse è l’unico esempio di politico della legislatura in corso che parla più nel chiuso delle riunioni che non in tv o sui giornali, dai quali è praticamente sparito. La tela tessuta per anni dentro ma soprattutto fuori dal suo partito — visto che è uno dei pochi che riesce ad avere ottimi rapporti sia con Giuseppe Conte che con Matteo Renzi — fa di lui «un candidato».
dario franceschini
Per il Colle, chissà. E, se non per il Colle, per Palazzo Chigi. Racconta un ministro che «se Draghi venisse eletto al Quirinale, verosimilmente nessun altro premier riuscirebbe a tenere Salvini ancora dentro una maggioranza con Pd e grillini. A quel punto, col perimetro ridotto a una compagine di governo che va da Leu a Forza Italia e Renzi, la politica pretenderà che sia un politico, e non un tecnico, a guidare l’esecutivo nell’anno prima delle elezioni». L’identikit, in questo caso, somiglierebbe troppo al suo perché Franceschini possa tornare a camminare sotto il pelo dell’acqua. Come un palombaro.
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