Alessandra Arachi per il “Corriere della Sera”
kobe bryant da bambino in Italia
Il giallo e il viola brillano nella notte. Gli americani provano a farsi coraggio dopo la morte di Kobe Bryant, 41 anni, e della sua secondogenita, la tredicenne Gianna, detta Gigi.
In tv, sui siti, su Twitter rimbalzano, da una città all' altra, le immagini di un Paese in lutto. Il sindaco di Los Angeles, Eric Garcetti ha fatto illuminare il City Hall, il municipio, con i colori dei Los Angeles Lakers, la squadra del campione di basket. Le luci sono rimaste accese anche altrove. Al Madison Square Garden di New York, al Mercedes Benz Stadium di Atlanta, allo United Center di Chicago.
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Jules Muck, una delle più note artiste di Los Angeles, ha disegnato nella notte un graffito gigantesco su un muro del Pickford Market, in centro città. È un ritratto di Kobe e Gigi, il mito e la sua inseparabile figlia, giovane promessa della pallacanestro. Un video li riprende mentre si allenano insieme. Il padre passa la palla, poi le si para davanti. Lei lo spinge via con un movimento perfetto della spalla, sale in sospensione e tira: «ciuff», canestro, ovviamente.
L' epicentro di questo dolore così profondo è lo Staples Center di Los Angeles, l' impianto in cui Kobe Bryant ha sempre giocato. Sulla rete è già partito un movimento per chiedere che sia celebrata qui la funzione funebre. Nel 2009 proprio allo Staples Center la città diede l' addio a Michael Jackson. C' era anche Bryant quel giorno sul palco. Forse non esiste un posto più appropriato di questo. Torna alla memoria il funerale di Muhammad Ali, il 10 giugno del 2016 a Louisville, in Kentucky. L' orazione dell' ex presidente Bill Clinton. Un trionfo di popolo. Probabilmente sarà così per Kobe, il Black Mamba, anche se la moglie Vanessa potrebbe scegliere di anticipare in forma privata la sepoltura del marito e di Gigi.
Solo dopo ci sarebbe spazio per il ricordo pubblico.
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Non saranno dimenticate le altre sette vittime dell' incidente: l' allenatore di baseball, John Altobelli, sua moglie Keri e sua figlia Alyssa; Christina Mauser, coach di basket, sua figlia Sarah e sua madre Payton Chester. Infine il pilota Ara Zobayan. Gli investigatori stanno ancora ricostruendo le sue ultime manovre, prima dello schianto a Calabasas. La mattina di domenica le condizioni climatiche sono pessime. Nebbia impenetrabile, umidità quasi al 100% a nord di Los Angeles.
L' elicottero privato di Kobe parte alle 9 da Santa Ana, a sud di Los Angeles. Ma la fitta foschia costringe subito il pilota a scendere di quota e a sorvolare in circolo per circa 15 minuti l' area dello zoo cittadino. Alle 9,30 Zobayan avvisa la torre di controllo dell' Hollywood Burbank Airport che gli dà comunque il via libera, nonostante la visibilità sia ridotta.
Una volta fuori dalla zona sorvegliata, spetta al pilota decidere se proseguire. Ara,un aviatore esperto, sceglie di fare rotta verso Thousand Oaks, dove i ragazzi della Mamba Academy li stanno aspettando. Ma superata Los Angeles, il muro di nebbia lo costringe ancora a ripiegare verso sud.
Il velivolo entra in una zona montuosa. È necessario salire immediatamente, da 360 a 600 metri. Alle 9.45 il Sikorsky S-76 si infrange contro una collina, a un' altitudine di 426 metri e a una velocità di 296 chilometri all' ora.
2 - L'EX COACH "HO INSEGNATO A PALLEGGIARE A KOBE BRYANT"
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Eduardo Lubrano per “la Repubblica - Edizione Roma”
«Il piccolo Kobe? Un anarchico. In campo faceva tutto: segnava, tornava in difesa recuperava il pallone e andava di nuovo in attacco senza passava la palla e segnava di nuovo». Gioacchino Fusacchia, classe '60 è stato il primo allenatore di Kobe Bryant a Rieti. Il padre Joe giocava nella Sebastiani e si era trasferito nel capoluogo sabino con la famiglia.
Viveva la città: lo trovavi al bar, al ristorante, al cinema. E il piccolo Kobe che all' epoca aveva 6 anni - parliamo del 1984 - seguiva il padre dandogli la mano: nell' altra aveva sempre un pallone da basket.
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«Allenatore di Kobe è una parola grossa - dice Fusacchia che oggi allena a La Foresta Rieti - io e Claudio Di Fazi col quale mi occupavo del minibasket della Sebastiani cercavamo di insegnargli a palleggiare, come si fa con tutti i bambini di quell' età, provando a far divertire tutti. Diciamo che siamo riusciti a non fargli passare la voglia di giocare. D' altronde lui non era allenabile dal punto di vista "tattico": si impegnava tantissimo, non si tirava mai indietro negli esercizi, era sempre il primo. Ma poi voleva sempre il pallone in partita e decideva tutto da solo».
Un predestinato?
«Sarebbe facile per me dirlo oggi, ma certo si capiva che aveva una gran voglia di emergere».
Fisicamente com' era, già così esuberante?
omaggio ai grammy per kobe bryant 1
«No, tutt' altro, era uguale agli altri. Ma dal punto di vista tecnico era superiore. Una anno facemmo una prova nel Torneo Coca Cola, all' epoca molto importante. Era riservato ai nati nel 1975 e noi decidemmo di far giocare anche Kobe pensando che quei tre anni di differenza (era nato il 23 agosto del 1978,ndr) avrebbero potuto tenerlo a freno. Niente da fare. Fummo costretti a richiamarlo in panchina perché anche con i più grandi faceva tutto lui e faceva sempre canestro. Lui si arrabbiò tantissimo ed invece di sedersi in panchina andò a lamentarsi dalla mamma e dal papà che mi lanciò un' occhiataccia. Alla fine lo premiammo come miglior giocatore del torneo».
kobe bryant
Come facevate a farvi capire dal piccolo Kobe?
«All' inizio con l' universale linguaggio dei gesti. Ma dopo 4-5 mesi lui già parlicchiava la nostra lingua e soprattutto capiva benissimo. E quando una cosa non gli piaceva faceva finta di non capire, come fanno i bambini di quell' età e come fanno quelli come lui, con un caratterino molto forte. Poi negli altri due anni è stato tutto molto più facile. Anche se in ogni pausa dell' allenamento della prima squadra si metteva a tirare fino a che qualcuno non gli faceva uno strillo affettuoso "Kobe e basta adesso!". Lui smetteva ma appena l' allenamento si fermava ricominciava come se niente fosse».
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