Maddalena Berbenni per il “Corriere della Sera”
viviana caglioni 1
Viviana insultata. Viviana percossa, in casa, in strada. Viviana isolata dal mondo. Viviana morta. A 34 anni e con il suo carico di dolore, tra i problemi di tossicodipendenza e una famiglia allo sbando, Viviana Caglioni è morta all'ospedale a Bergamo il 6 aprile 2020, dopo una settimana di agonia. Il fidanzato Christian Locatelli, 43 anni, in carcere da quel periodo, è stato condannato in primo grado a 18 anni più 3 di libertà vigilata per il reato di morte come conseguenza dei maltrattamenti.
Una sentenza che ora il pm Paolo Mandurino impugna. Vuole l'ergastolo, per l'imputato, e batte, fra gli altri aspetti, su un passaggio scivoloso delle motivazioni della Corte d'Assise del giudice Giovanni Petillo (a latere Alice Ruggeri): «Locatelli agiva mosso da un senso di gelosia e da un senso di possesso nei confronti di Viviana in sé incompatibile con la volontà di ucciderla», la sintesi di due incisi della sentenza. «Davvero non si comprende - argomenta il pm - per quale ragione, secondo la Corte d'Assise, il movente della gelosia, pure riconosciuto dal giudice, sarebbe di per sé incompatibile con la volontà di Locatelli di liberarsi della compagna».
viviana caglioni
Per il pm «si tratta di un'asserzione sorprendente, che è e resta del tutto isolata rispetto all'intero panorama giurisprudenziale italiano. Significa di fatto affermare che mai un femminicidio potrebbe essere sorretto dal movente della gelosia, il che è (ovviamente) in contrasto non solo con ogni logica, ma anche con la consolidata (e da tempo) unanime esperienza giurisprudenziale».
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La Corte ritiene più che provati i maltrattamenti: «Gli insulti, le urla, le scenate di gelosia, il lancio di oggetti e le percosse dell'imputato si sono verificati con frequenza e continuità». Ritiene anche che sia stato un colpo di Locatelli, nell'appartamento ai piedi di Città Alta, a fare perdere l'equilibrio a Viviana e farle sbattere la testa a terra. Ma poi imbocca una strada sua. Se avesse previsto che la spinta avrebbe causato la morte della fidanzata, Locatelli avrebbe persistito? La risposta dei giudici è «no». E questo innanzitutto per via delle ferite superficiali: «Se non fosse sopraggiunta la caduta (e dunque il trauma cranico letale, ndr ), gli schiaffi e i calci di Locatelli mai ne avrebbero determinato la morte». Verosimilmente nemmeno il ricovero, aggiungono.
Ma c'è anche l'inerzia dello zio della vittima, unico testimone oculare. Non intervenne in difesa della nipote, concludono, perché non si trattò «di un'aggressione con connotati diversi e più gravi rispetto alle altre pregresse manifestazioni di violenza, che si risolvevano di regola in sberle e schiaffi nei confronti della donna». Le convinzioni del pm e della difesa sono altre e opposte tra loro. Locatelli, assistito dalle avvocatesse Federica Bonacina e Benedetta Donghi, ha impugnato a sua volta per essere assolto: fu solo un incidente, a suo dire. Mandurino insiste sull'omicidio volontario aggravato. Usa parole come «pestaggio» e «ferocia».
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Rimarca l'indole «particolarmente violenta» e «lo spessore criminale» dell'imputato con 17 condanne dal 2000, per lo più per resistenza e lesioni. «Ammazzo anche te», la frase che, secondo lo zio, gli rivolse quella sera e che avrebbe tradito le sue reali intenzioni, confermate da colpi comunque inferti in parti vitali e nell'atteggiamento successivo alla caduta, quando col 118 avrebbe tentato di sminuire. Unica parte civile, la madre di Viviana: «Non ho ancora avuto modo di leggere l'appello del pm, ma trovo la sentenza equilibrata nel ragionamento giuridico - dichiara il suo avvocato Roberta Zucchinali -. Era un caso molto articolato rispetto al classico femminicidio, che la Corte ha sviscerato in tutti i suoi aspetti, ed erano tanti».
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