MASSIMO GRAMELLINI per il Corriere della Sera
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Con ogni probabilità il calciatore che ha contagiato mezza squadra del Genoa, mettendo a repentaglio il fine settimana di milioni di appassionati, aveva contratto il virus durante la giornata di riposo. Era già accaduto ad altri suoi colleghi, ormai talmente numerosi che, da Perin a Ibrahimovic, si potrebbe schierare un'intera formazione con tanto di panchina lunga e allenatore.
Ho letto commenti del tipo: «Ovviamente non si può impedire a un giocatore di avere la vita sociale che desidera». Ovviamente. E se invece stesse proprio lì il problema? I calciatori di serie A possiedono in dosi massicce i due tesori che ogni giovane vorrebbe avere, almeno a sentire le canzoni dei rapper: fama e denaro.
Dal sistema ricevono risorse importanti e di anno in anno sempre più squilibrate rispetto a quelle riconosciute ai loro coetanei, per i quali continuano a rappresentare dei modelli di comportamento a cui ispirarsi. Fanno parte a tutti gli effetti della classe dirigente, ammesso che questa espressione significhi ancora qualcosa.
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Non serve essere Spiderman per riconoscere che Potere e Responsabilità dovrebbero sempre crescere di pari passo, pena l'implosione della società che su quei valori si fonda. E anche il tifoso più adorante fa fatica a digerire da un calciatore gli stessi atteggiamenti superficiali - come partecipare a una festa al chiuso senza mascherina - che suscitano polemiche feroci quando invece provengono da un politico o da un imprenditore.
MASSIMO GRAMELLINI
Un calciatore replicherebbe dicendo che non è giusto chiedere a lui la serietà che non riusciamo a pretendere dai rappresentanti del popolo, ma è altrettanto vero che il suo cattivo esempio rischia di essere ancora più contagioso, oltre che produrre effetti destabilizzanti su uno dei pochi elementi fondativi della Repubblica, il campionato di calcio, la cui sospensione avrebbe conseguenze sull'umore di tanti di noi.
In America hanno risolto il problema chiudendo i campioni del basket in una bolla dorata, ma pur sempre una bolla, da cui di fatto usciranno a fine campionato o quando arriverà il vaccino. Un simile schema non è applicabile al calcio, che coinvolge un numero maggiore di atleti e richiede campi di allenamento ben più grandi di una palestra, anche se l'idea di una Disneyland del pallone in cui far convivere per otto mesi tutte le squadre di serie A avrebbe avuto un suo fascino.
E però questi ragazzi, che ormai si muovono come piccole multinazionali circondate da uffici stampa e responsabili dell'immagine che ottimizzano e monetizzano ogni loro respiro, sono perfettamente in grado di capire che il privilegio di cui godono ha un prezzo e che questo prezzo ha un senso solo se contempla qualche rinuncia.
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Capisco che a esprimere certi pensieri fuori moda si rischia di passare per barbogi. Ma se avessi un figlio calciatore professionista e lui si degnasse di togliersi le cuffie per il breve lasso di tempo necessario ad ascoltare il mio predicozzo, gli direi di prendere tutte le precauzioni necessarie, senza aspettare che a imporgliele arrivino un regolamento federale o una clausola contrattuale.
Nei miei anni da giornalista sportivo ho visto abbastanza di tutto, ma in quel tutto ho visto anche il più trasgressivo (e formidabile) fuoriclasse di sempre, con un sistema immunitario indebolito dai bagordi, mettersi in clausura volontaria alla vigilia di una partita importante per non rischiare di prendersi l'influenza e di attaccarla ai compagni. Si chiamava Diego Armando Maradona.
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