Pier Luigi del Viscovo per "Il Giornale"
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Così è davvero decrescita. Al solito, arriva da dove non te l'aspetti. A causarla non saranno tanto le scellerate politiche assistenziali, pensate da chi non conosce altro modo di avere denaro che non sia l'elargizione, premio di una vittoria elettorale o concorsuale. Nemmeno il milione di pubblici dipendenti che resterà a casa nel post-Covid e nel 2021, che tanto anche quando erano sul posto non è che dessero questa spinta alla produttività.
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No, sono proprio le grandi imprese nazionali e multinazionali, guidate da manager e consigli di amministrazione, a gettare le basi per un diffuso impoverimento dell'economia, in qualità e in quantità. Nonostante siano solide e alcune proprio ricche, stanno tagliando i costi in modo selvaggio pur di non andare in rosso quest' anno. Prigionieri di valutazioni finanziarie, il rating cui sono agganciate le posizioni debitorie e le provviste, e invogliati dai bonus, i vertici puntano a rendere definitivo lo smart working. Costa meno e fa risparmiare sugli uffici, certo, ma il prezzo sarà salatissimo, a livello micro e macroeconomico.
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Le persone sono animali sociali e danno il meglio quando si incontrano e si scontrano, esercitano pressioni e trovano soluzioni, fanno e ascoltano, informano e apprendono. Nel giro di mesi, l'output di queste organizzazioni risulterà impoverito nella qualità. Ad accorgersene saranno i clienti, ma non le imprese, che avranno già distrutto la capacità di ascoltare e di intercettare i segnali deboli. Al danno interno si aggiungerà quello esterno, macroeconomico.
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Lo smart working riduce la produzione di ricchezza legata alla circolazione delle persone. Un palazzo di uffici alimenta un indotto, dal parcheggio al benzinaio, dal bar al negozio vendo-tutto. Dimezzare gli uffici significa far chiudere tante attività e rallentarne altre. I milioni di fornitori non visiteranno certo i clienti a domicilio. Inoltre, stare a casa tiene le persone in un semi-torpore che ne rallenta il battito economico, cioè la propensione e la velocità dei consumi: la domanda che alimenta la produzione di ricchezza.
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L'aritmetica, per chi l'ha studiata, dice che per distribuire 1.724 miliardi di Pil a 60 milioni di abitanti serve un ritmo frenetico per 365 giorni: se rallenta, il Paese si mette a dieta e soffre di più chi è già magro e debole di suo. Piaccia o no ai suoi manager, è la grande impresa il vero motore della ripresa o della decrescita. Dopo oltre vent' anni di «corporate social responsibility» fatta di alberelli piantati dove ognuno possa vederli e di ogni altra causa modaiola, ecco una vera responsabilità sociale: far girare il meccanismo economico, allargando l'interesse a quello della società. Nel bilancio di sostenibilità 2020 potranno scrivere: abbiamo fatto chiudere tante piccole attività e rallentato il ciclo economico, però finanzieremo una riserva per i koala.
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Completamente diverso l'approccio degli imprenditori, che sentono l'azienda come propria e cercano in ogni modo di rimettere insieme il meccanismo, quanto prima e quanto più completamente possibile. Magari non hanno un «HR director» formato in prestigiosi atenei e chiamano ancora i dipendenti «personale» e non «risorse umane», però sanno che la sopravvivenza dell'impresa è affidata a clienti e collaboratori, i due asset principali. Sono quelli che non hanno esitato a anticipare gli stipendi, in attesa dei soldi della cassa integrazione, e che fanno rientrare le persone al lavoro, quello vero dove si produce il valore aggiunto.
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Hanno già messo in conto una perdita per il 2020 e forse anche per il 2021 e si attrezzano per reperire le risorse finanziarie per tirare avanti e uscire dal guado. Non è la prima difficoltà e non sarà l'ultima. Ci sono abituati e ce l'hanno nel Dna, i piccoli come i grandi. Sono gente di visione, sanno guardare avanti alla creazione di valore vero, non quello finto degli analisti.
Lodovico Poletto per "La Stampa"
Il signor Giorgio Pavan, alle due del pomeriggio di ieri, ha preso un pennarello rosso e ha fatto un cerchio sul calendario che ha sulla scrivania all'ingresso del suo ristorante. «E sa perché? Oggi è stato il primo giorno che ho tenuto aperto a pranzo dal mese di marzo». E domani? «Domani apro soltanto per cena: tanto in giro non c'è nessuno: gli impiegati lavorano da casa, il tribunale è al rallentatore e qui intorno ci sono più uffici chiusi che aperti».
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Visto da qui, da questo ristorante che si chiama «Quattro soldi» e che fino a prima del Covid era uno dei posti prediletti per la pausa pranzo di giudici e avvocati, dirigenti in grisaglia di Intesa Sanpaolo, e professori del Politecnico, il post lockdown è un mondo vuoto. Come lo sono gran parte dei 30 e fischia piani del grattacielo della banca, come lo è il tribunale, come lo sono le aule del Poli e pure le Ogr, diventate Covid hospital d'emergenza, ma fino a qualche mese fa crocevia di studenti, insegnanti, ricercatori e tutto l'universo che gravita attorno al politecnico. Ecco, il deserto metropolitano è questo.
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Chiedi di chi è la colpa di tutto questo in un bar qualunque della zona e la risposta è la stessa per tutti: il lavoro da casa, il telelavoro, lo smartworking. Ora, al di là delle differenze semantiche ciò che non cambia è il concetto: il lavoro da casa ha regalato spazi per i posteggi (ed è un bene) e ha stravolto la fisionomia del quartiere. Il traffico delle auto: incredibilmente non è stato cancellato. Ma la gente che colonizzava ogni giorno questo scampolo di città tra corso Castelfidardo e corso Vittorio, è come se fosse evaporata.
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E, davanti ad un caffè, il signor Pavan fa i conti del disastro. I coperti a pranzo sono zero, contro i 200 di prima. E la sera? «Almeno il 70 per cento in meno». Neanche la sua fiorentina al sangue è in grado di battere il Sahara metropolitano. Intanto in centro sono giorni che politici e sindacati si esercitano sulle cifre dei dipendenti in smartworking di Comune e Regione. E la percentuale è impressionante: è tornato in ufficio soltanto un impiegato su 5. E i bar del centro, quelli che si affacciano sulla strada porticata che porta al fiume - via Po - e quelli che hanno dehors e saloni dentro e attorno al quadrilatero storico, tirano la cinghia.
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«È un disastro: se non rientrano rapidamente al lavoro chiuderanno: chi può resistere a cinque mesi senza guadagnare» dice Confesercenti. Il piattino della pausa pranzo dava lavoro a qualche centinaio di persone. «È la città che si sta trasformando» dicono i sociologi. Che mette in crisi tutto: dai servizi ai trasporti pubblici. Due numeri aiutano a capire. Gtt, la società che gestisce il trasporto urbano ed extra urbano fa i conti con numeri da paura. Autobus, tram e metropolitana, viaggiano al 30% del potenziale. E i conti che già non erano floridi rischiano il tracollo.
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E c'è chi storce il naso al progetto di una seconda linea di metropolitana: progetto per cui sono già stati trovati i soldi (828 milioni dal governo e 600 («potenzialmente») da Cassa depositi e Prestiti . I numeri? «Dai 200 ai 300 mila viaggiatori in meno al giorno». E non basta la chiusura delle scuole a colmare il buco. Alle 10 del mattino il «4», linea di tram che attraversa la città da nord a sud, che unisce due periferie e il centro, è praticamente vuoto.
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E se non fosse per la zona di Porta Palazzo che non delude mai, vincerebbe il vuoto. «La pandemia ci ha svelato che il modello di centro urbano con grandi concentrazioni di persone, viali e corsi come autostrade, cemento, non sono più un modello attuale. La nuova città è ramificata e distribuita, il modello fordista e post fordista è stato messo in crisi. Gli enormi spostamenti di persone sono il passato» dice, in sintesi, il sociologo Giuseppe Tipaldo. Che guarda a Torino, ma pensa a tutto il Paese. E si immagina un mondo che cambia con il lavoro da casa. Con gli impiegati che accudiscono i figli e intanto producono.
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Ora, però, questo modo di lavorare mette in ginocchio il commercio legato alla produzione del cibo prêt a manger. Tanto che Giancarlo Banchieri, presidente di Confesercenti, dice: «Così non può durare a lungo. In questo settore non ci sono grandi aziende che hanno ben altra autonomia dal punto di vista finanziario. Per noi è fondamentale il flusso costante della liquidità. Il rilancio di Torino non può che passare anche attraverso il rilancio della rete commerciale». Tutto vero, ma per ora non è così. Si svuotano i locali del coworking.
Il gruppo assicurativo Reale Mutua - che durante il lockdown aveva il 99% del personale in lavoro agile - ha già fatto sapere che il lavoro a distanza sarà «modalità prevalente e verranno favorite le rotazioni interne». Basta? No. Il Comune punta ad avere 1600 dipendenti che faticano da casa in modo permanente. Un cambio epocale. Ma chi campava sul popolo dei lavoratori? Per ora tira la cinghia. Taxisti compresi. Anche perché - come dice l'assessore al Commercio Alberto Sacco, in città mancano anche i turisti e quindi: «I baristi hanno ragione a lamentarsi».
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C'è una sola buona notizia in arrivo: «A giorni rientreranno in ufficio altri dipendenti comunali». Lo dice Sacco. E i bar attorno a Palazzo civico, sperano.
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