Alberto Mingardi per la Stampa
Il trattore che si guida da solo, i tassisti che protestano contro Uber. L' innovazione stupisce e spaventa.
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Il trattore raccoglierà e trasmetterà dati mentre marcia fra i filari. Le auto bianche vogliono evitare una più accesa concorrenza da parte degli Ncc. Dopo sei giorni di sciopero, conclusisi soltanto con l' apertura di un canale preferenziale col governo, è facile immaginare quale sarà la loro reazione, quando si affacceranno sul mercato le vetture senza conducente.
Si teme che il progresso tecnologico porti a una società divisa in due: pochissimi che vivono dei suoi frutti, moltissimi che perdono il lavoro. Di qui l' idea che non sia sbagliato mettere alla porta oggi Uber, e domani chissà quale altra tecnologia che scardina vecchi meccanismi.
Di qui la proposta di «tassare i robot», fatta propria pure da Bill Gates, per distribuire più equamente i benefici dell' innovazione.
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A scanso di equivoci, pagare le tasse non è una cosa che facciano le macchine e neppure le aziende: è un' esclusiva degli esseri umani. Le conseguenze sono quindi le stesse che ci si può aspettare da qualsiasi inasprimento fiscale sull' impresa: si riducono i dividendi per gli azionisti o i salari degli impiegati o si alzano i prezzi per i consumatori.
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L' imposta sui robot, nelle intenzioni di chi la propone, colpirebbe i profitti. Non è detto, però, che vada così.
L' unica cosa certa è che rallenterebbe l' adozione di nuovi macchinari. Tiriamo un sospiro di sollievo? Meno innovazione è il prezzo da pagare per avere una società più equa?
Le profezie sul futuro vanno paragonate con quel che sappiamo del passato. Da due secoli e mezzo conviviamo con un' automazione sempre maggiore: cerchiamo, per quanto possibile, di sostituire lavoro umano con macchinari. L' agricoltura è un buon esempio. A inizio '900, in Italia, più del 60% degli occupati lavorava nel settore primario. Oggi, anche prima del trattore autoguidante, meno del 4%.
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Non produciamo di meno ma di più. Non ci sentiamo minacciati dalla scarsità di cibo. La produttività, cioè quanto prodotto ciascun addetto riesce a realizzare, è cresciuta vertiginosamente. Tutti ne abbiamo beneficiato: un secolo fa la metà del reddito degli italiani finiva in spesa alimentare, oggi il 15%.
La stessa cosa avviene nell' industria manifatturiera: con meno lavoro umano, riusciamo a fare più cose. E' stata una grande «liberazione» dalla fatica. Si sono ridotti i lavori insalubri e fisicamente massacranti: la catena di montaggio degli Anni 50 e quella da cui oggi escono i trattori di Cnh richiedono un impegno fisico ben diverso. Ciò non vuol dire che l' innovazione non faccia vittime. Molte persone si trovano spiazzate, perdono il lavoro e non riescono a ricollocarsi. La politica dovrebbe provare a dare un senso a parole che ha generosamente esibito come slogan: tipo «formazione continua».
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E' difficile applicare un principio di precauzione: nessuno sa in che direzione vada il progresso. Di per sé, nulla garantisce che una tecnologia nuova sia preferita a una vecchia: la maggior parte delle persone tutt' oggi apprezza gli asciugamani «tradizionali» più di quelli elettrici.
Qual è la novità buona e qual è quella cattiva lo decide solo il consumatore. E perché mostri il pollice alzato, bisogna che percepisca che quell' innovazione gli migliora la vita.
Se il progresso ha un costo sociale, lo hanno anche i progressi mancati.
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Rallentare l' innovazione non amplierà la platea dei beneficiari. Per offrire stabilità di condizioni ad alcuni gruppi va a finire che priviamo di nuove opportunità tutti gli altri: oggi staremmo meglio o peggio, se avessimo frenato la diffusione dell' automobile per tutelare i cocchieri? In gioco c' è qualcosa che sbagliamo a dare per scontato: la capacità delle nostre società industriali di continuare a generare nuovi prodotti e nuovi servizi. Attenzione a dissanguare la pecora che si vuole tosare.