Lorenzo Cremonesi per Il "Corriere della Sera"
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Il pomeriggio del 14 aprile Irina Venediktova è stata felice di poter annunciare agli ucraini e al mondo uno dei primi importanti successi del suo infaticabile lavoro: il Tribunale internazionale dell'Aia avvia un'inchiesta per processare la Russia per «crimini di guerra» e persino «contro l'umanità». Lo ha espresso col suo stile asciutto e determinato, ben felice per una volta di fare un passo indietro e lasciare la parola al giudice Karim Khan, l'inviato del Tribunale che sta raccogliendo prove e documenti che garantiscano gli estremi per istruire il processo. Lui era l'ospite gradito.
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Eppure, sin da subito nella sala conferenze della procura generale dello Stato a Kiev, è stato evidente chi fosse il vero motore dell'intera operazione: lei, la 43enne procuratrice di ferro, ex docente di legge, che il presidente Volodymyr Zelensky due anni fa volle nominare a uno dei più delicati incarichi del governo per ripulire un'amministrazione pubblica tristemente nota per la corruzione interna, l'inefficienza e per il fatto d'essere spesso prona a soddisfare i piccoli oligarchi locali, che comunque restano una piaga del Paese. «Lavoreremo prima di tutto per trovare prove, testimonianze ed evidenze, nulla resterà intentato. I crimini dell'invasione verranno documentati senza ombra di dubbio, nulla deve essere lasciato al caso», ci spiega di persona.
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C'è da crederle. I media locali la seguono con grande attenzione, pubblicano spesso le sue foto in tailleur grigio fumo di rappresentanza, ma anche e soprattutto vestita da battaglia, con stivali e giacconi militari, mentre si reca sulle fosse comuni di Bucha, Borodyanka, Irpin, Hostomel, Kharkiv, Chernihiv e degli altri centri devastati dalle bombe, inzaccherata sotto la pioggia tra le rovine delle abitazioni. «Io vorrei proteggere le nostre città, i nostri bambini, la nostra gente. Non ho armi per farlo. Ma cerco ogni mezzo legale. Vorrei salvare Mariupol e tutti i nostri centri urbani sotto assedio dalla battaglia. Ci penso di continuo, il mio strumento è la Legge, non ne possiedo altri», spiega. Un linguaggio che in genere si usa solo dopo la fine dei conflitti, quando i fucili non sparano più. Ma lei non esita a recarsi vicino alle prime linee: «Andiamo a proteggere civili innocenti e intanto cerchiamo già di compensarli contro la violenza del dittatore Putin», aggiunge.
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In questo è molto diversa da altri esponenti del governo, per esempio la deputata Ludmilla Denisova, la presidente della Commissione parlamentare per la Difesa dei diritti umani (a sua volta incaricata di aiutare ad istruire il processo per i crimini di guerra) che si è già attirata critiche per la poca accuratezza e i toni barricadieri con cui accusa l'esercito russo di «sistematiche violenze sessuali contro le donne ucraine» nelle zone occupate. «Prima di avanzare imputazioni precise dobbiamo raccogliere prove serie e inconfutabili», specifica Venediktova.
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Con i suoi collaboratori ha già dato avvio a oltre 8.000 inchieste criminali e identificato circa 500 sospetti, inclusi ministri russi, ufficiali e soldati dell'esercito invasore. Nelle prime fasi della guerra si è concentrata sul fiume di profughi che dalle zone occupate transitava per il centro ferroviario di Leopoli. Qui aveva messo assieme una cinquantina d'investigatori. Non era difficile far parlare gli sfollati, anche se molti non ne capivano il motivo. Lei però cercava verifiche, confronti incrociati: spesso non è sufficiente una testimonianza per costituire una prova di fronte ai giudici. Così la procuratrice non ha esitato a cercare altri testimoni già profughi in Polonia, o Moldavia. Lentamente ha trovato sostegno e finanziamenti grazie al circuito della Corte Internazionale in Polonia, Germania, Francia, Lituania.
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Un giorno, per esempio, nel villaggio di Krakivets, sul confine polacco, incontra Liudmila Verstiouk, una 58enne fuggita l'8 marzo dal suo appartamento incendiato dalle bombe russe a Mariupol. La donna le dice che ha dovuto abbandonare il padre 86enne malato di Alzheimer nell'appartamento in fiamme. Quindi si è rifugiata nel teatro municipale, che ha lasciato il giorno prima che venisse bombardato. I collaboratori della procuratrice la intervistano per cinque ore: le sue parole sono ora conservate nei dossier.
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