Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera"
giulio regeni
La prima beffa sull' atroce fine di Giulio Regeni - all'epoca misteriosa, oggi molto meno - si consumò il giorno in cui ne fu denunciata la scomparsa. Al commissariato di Dokki, distretto occidentale del Cairo, mercoledì 27 gennaio 2016 si presentarono il funzionario d'ambasciata Davide Boncivini, insieme a Noura Medhit Whaby, amica di Giulio, e al suo coinquilino Mohamed Al Sayyadf.
Dissero che il giovane ricercatore universitario era sparito dalla sera di lunedì, ma quello stesso lunedì Giulio era stato proprio lì, nel commissariato di Dokki. Oggi lo sappiamo grazie alla deposizione del testimone Delta (nome in codice per proteggerne la sicurezza), che il sostituto procuratore di Roma Sergio Colaiocco legge alla commissione parlamentare d' inchiesta sul sequestro e la morte di Regeni: «Il 25 gennaio, mentre ero nella stazione di polizia di Dokki, potevano essere le 20 o al massimo le 21, è arrivata una persona Avrà avuto tra i 27 e i 28 anni, aveva una barba corta, indossava un pullover, verosimilmente tra blu e grigio, se non ricordo male con una camicia sotto Si esprimeva in italiano e ha chiesto un avvocato Sono sicuro che si trattasse di Giulio Regeni.
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Nelle foto che ho visto su internet aveva la barba più lunga».
Il racconto del testimone, rintracciato dai legali della famiglia Regeni coordinati dall'avvocata Alessandra Ballerini, prosegue con le inutili invocazioni di Giulio: «Mentre percorreva il corridoio, chiedeva di poter parlare con un avvocato o con il Consolato. In quel frangente ho visto bene il ragazzo italiano, che arrivava con quattro persone in abiti civili. Uno di questi aveva un telefono in mano».
Poi il prigioniero fu portato via: «È stato fatto salire su un'auto modello Shine, è stato bendato e condotto in un posto che si chiama Lazoughly. Uno dei poliziotti che si trovavano lì veniva chiamato Sharif un altro si chiamava Mohamed, ma non so se è il vero nome». Chi perorava la causa del giovane fu messo a tacere: «Mentre Regeni chiedeva un avvocato un altro arrestato, che provava ad aiutarlo, riceveva una gomitata al volto da un poliziotto che disse che il ragazzo italiano parlava anche arabo».
giulio regeni
Probabilmente il 27 gennaio Giulio era già nell'altra stazione della sua via crucis, la sede della National security presso il ministero degli Interni, località Lazoughly, dove il 28 o il 29 gennaio l'ha visto il teste Epsilon: «Ho lavorato 15 anni nella sede dove Regeni è deceduto. È una struttura in una villa che risale ai tempi di Nasser, poi sfruttata dagli organi investigativi. Sono quattro piani e il piano d'interesse è il primo, la stanza è la numero 13. Quando viene preso qualche straniero sospettato di tramare contro la sicurezza nazionale viene portato lì».
È la stanza delle torture: «Ho visto Regeni nell' ufficio 13 e c'erano anche due ufficiali e altri agenti, io conoscevo solo i due ufficiali. Entrando nell' ufficio ho notato delle catene di ferro con cui legavano le persone Lui era mezzo nudo nella parte superiore, portava dei segni di tortura e stava blaterando parole nella sua lingua, delirava Era un ragazzo magro, molto magro Era sdraiato steso per terra, con il viso riverso L' ho visto ammanettato con delle manette che lo costringevano a terra Ho notato segni di arrossamento dietro la schiena, ma sono passati quattro anni, non ricordo bene i particolari. Non l' ho riconosciuto subito, ma cinque o sei giorni dopo, quando ho visto le foto sui giornali, ho associato e ho capito che era lui».
giulio regeni paz zarate
Conclusa la lettura del verbale, nell' aula della commissione scende il silenzio. La relazione del pm Colaiocco e del procuratore Michele Prestipino sugli esiti dell' inchiesta si ferma qui. La Procura è pronta a chiedere il processo per il sequestro di Giulio Regeni per il generale Tariq Sabir, il colonnello Athar Kamel Mohamed Ibrahim, il colonnello Uhsam Helmi e il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif (quest' ultimo accusato anche di omicidio e delle torture praticate con oggetti roventi, calci, pugni, lame e bastoni»). Tutti irreperibili, protetti dal rifiuto egiziano di comunicare gli indirizzi. Per l' agente Mahmoud Najem è stata chiesta l' archiviazione, con un documento che riassume nel dettaglio tutta l' indagine.
Sul maggiore Sharif pesano, oltre agli indizi dei contatti telefonici e ai rapporti con il sindacalista Moahamed Abdallah che denunciò Giulio alla National security, le parole del teste Gamma. Il quale ha raccontato di averlo visto e sentito confessare a un collega della polizia keniota di aver arrestato e picchiato Regeni: «Ha cominciato a parlare di uno studente italiano, un dottorando, che stava cercando di fomentare un piccolo gruppo di persone al fine di avviare una rivoluzione... Affermava che questo italiano poteva essere un appartenente alla Cia, citò anche il Mossad. Continuava dicendo che loro avevano scoperto che era appartenente alla Fondazione Antipode, che spingeva per l' avvio di una rivoluzione in Egitto. A un certo punto loro ne avevano avuto abbastanza».
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Secondo la testimonianza di Gamma, Sharif (identificato dalla consegna di un biglietto da visita al keniota, che ne pronunciò il nome ad alta voce) organizzò intercettazioni e pedinamenti di Giulio, e una sera «prima che raggiungesse un ristorante a piazza Tahir loro lo avevano fermato. Loro, gli egiziani, erano molto arrabbiati e l' arabo, usando la prima persona singolare, affermava di averlo colpito. Al keniota che chiedeva il nome del soggetto di cui parlava, l' egiziano rispondeva: Giulio Regeni».
LA SALMA DI GIULIO REGENI
L' altra tragica beffa è che pure i due egiziani andati a denunciare la scomparsa di Giulio, l' amica Nouri e il coinquilino El Sayyad, hanno contribuito alla «ragnatela di controlli» tessuta dalla National security intorno al ricercatore, tramite i contatti - mediati o diretti - col maggiore Sharif e il colonnello Helmy. Tutto questo è stato ricostruito dalla Procura di Roma, con i carabinieri del Ros e i poliziotti dello Sco, grazie ai pochi elementi trasmessi dal Cairo dopo il richiamo dell' ambasciatore, nell' aprile 2016. Per il resto il rapporto con l' Egitto è stato «difficoltoso, laborioso, complesso», dice Prestipino. Ma al di là dei toni diplomatici e persino eufemistici del procuratore, restano le domande inviate per rogatoria e rimaste senza risposta: 39 su 64.
GIULIO REGENI
Tutt' altra determinazione, invece, nei depistaggi messi in campo dopo il ritrovamento del cadavere, il 3 febbraio 2016: dal movente sessuale all' incidente stradale, dalla lite in piazza al furto di documenti perpetrato da una banda di cinque criminali puntualmente sterminati, riesumato di recente. E poi le bugie e i «buchi» sulle telecamere della metropolitana, insieme alle scuse accampate per negare informazioni e ai continui sospetti sull' attività di Giulio. Che suscitarono le rimostranze dell' ex procuratore Giuseppe Pignatone, e indussero il pm Colaiocco a interrompere una riunione con i colleghi del Cairo «rifiutandosi di mettere nuovamente in dubbio la correttezza del comportamento di Regeni in Egitto».
GIULIO REGENI CON LA FAMIGLIA Giulio Regeni Giulio Regeni GIULIO REGENI E AMICI FIORI PER GIULIO REGENI