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    “NON LO RICONOSCO PIU’, METTE IN DUBBIO PERFINO ALLAH’ – ADORA I LIBRI, L’UOMO RAGNO E GLI SCACCHI ED È BRAVO A SCUOLA, IL PAPÀ MUSULMANO LO RIMANDA DA VICENZA IN BANGLADESH PER "SALVARLO" - SECONDO IL FIGLIO 12ENNE ERA STATO "ROVINATO" DALLA CULTURA OCCIDENTALE… - L'ULTIMO MESSAGGIO AL VICINO DI CASA CHE SI ERA PRESO CURA DI LUI


     
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    Enrico Ferro per “la Repubblica”

     

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    Quando ha visto per la prima volta l' Uomo Ragno in televisione, a otto anni, è rimasto a bocca aperta. Gli occhi addirittura brillavano quando, invece, ha saputo dell' esistenza di Sandokan e delle sue gesta eroiche.

     

    Per Dawud, bambino bengalese di 12 anni, nato e cresciuto in provincia di Vicenza, padre manovale e madre casalinga, non era scontato vedere cartoni animati e leggere libri. Nella rigida osservanza della cultura del loro paese i genitori l' avevano tenuto all' oscuro di tutto. Un vicino di casa se l' è preso a cuore e gli ha insegnato ciò che insegnava al figlio: leggere, scrivere, appassionarsi ai racconti, giocare a scacchi. E vincere. Una china troppo occidentale per il padre che, venti giorni fa, ha imbarcato moglie e tre figli in un aereo di sola andata con destinazione Dacca.

     

    «Me l' hanno rovinato, non lo riconoscevo più. Metteva in dubbio persino l' esistenza di Allah. Così ho salvato lui e i suoi fratelli», dice il genitore da dietro la porta del suo appartamento, a Montecchio Maggiore. Giancarlo Bertola, il dirimpettaio, si è preso a cuore questo caso e ha scritto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al ministro degli Esteri Luigi Di Maio. «In prima elementare è stato bocciato perché non conosceva una parola di italiano, in quinta è stato promosso con il massimo dei voti. Quel bambino deve vivere la nostra società, averlo riportato in Bangladesh è un' ingiustizia », dice l' uomo, architetto di professione.

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    A Montecchio Maggiore, paese di 23 mila abitanti nel distretto delle concerie vicentine, si viene a sapere di Dawud per la sua bocciatura in prima elementare. «Non capiva le maestre, come poteva rimanere promosso?», si chiede Bertola. «Mi sono informato di chi fosse quel bambino coetaneo di mio figlio e ho scoperto che viveva a settanta metri da casa nostra ». Il rapporto d' amicizia è nato così. «Ho proposto ai suoi genitori di aiutarlo a svolgere i compiti. Lo stesso invito, successivamente, è stato rivolto al fratellino. Tutti e due hanno iniziato a frequentare casa mia».

     

    Finivano la scuola alle 16.30 e andavano dal vicino. Lì hanno visto i primi dvd, mangiato i pop corn, bevuto la prima cioccolata calda. «Non posso dimenticare la sua voglia di imparare. Ha iniziato a divorare libri di avventura per ragazzi: Verne, Salgari, Jack London. La sua curiosità l' ha spinto ad affrontare anche letture più complesse: Anna Frank, Primo Levi, Malala, la bimba pachistana che si è ribellata al radicalismo islamico». Due anni fa ha partecipato con un disegno all' iniziativa di Repubblica con Renzo Piano: "Ragazzi, disegnate l' Italia come vi piace". Giancarlo Bertola poi gli ha insegnato a giocare a scacchi.

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    «Non faceva sport, l' ho messo alla prova con questo gioco. È diventato un asso. Vinceva trofei al circolo locale ma non voleva portarli a casa per paura del papà».

     

    Quella di Dawud è una storia di sofferenza e frustrazione, sentimenti generati dallo scontro tra culture diverse. L' esercizio della patria potestà di un genitore contro il buon senso. «Dai bambini arriva una lezione importante: loro sono capaci di leggere, con i loro mezzi, il conflitto tra culture, e l' ingiustizia della loro situazione », ragiona il sociologo Stefano Allievi dell' Università di Padova.

     

    Nel caso di Montecchio Maggiore si parla anche di maltrattamenti raccontati nei compiti d' italiano, ma l' istituto nega e i servizi sociali del comune stanno cercando di vederci chiaro. L' ultimo atto è il messaggio arrivato da Dawud a Giancarlo Bertola via WhatsApp venti giorni fa: «Aiutami, mi hanno detto che mi portavano dal medico e invece mi stanno portando in Bangladesh». Da allora più nulla.

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