Fabrizio Roncone per il "Corriere della Sera"
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Palla a Lukaku. Un modo di dire. Antonio Conte ci ha vinto uno scudetto. Ma gli aveva organizzato un'intera squadra intorno: con tagli automatici, Barella che entrava in verticale, il tormento delle sovrapposizioni, un calcio martellante, ossessivo.
Il ct del Belgio Roberto Martinez ha idee piuttosto diverse (sostiene di ispirarsi a Johan Cruijff; poi, vabbè: domenica sera, agli ottavi, contro il Portogallo, nella ripresa s'è sistemato con il vecchio catenaccione, nove giocatori a difendere e uno - indovinate chi - lì davanti).
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Eccolo il Belgio, che entra in ricognizione sul prato dell'Allianz Arena (ci sono pure Eden Hazard e Kevin De Bruyne: malconci ma sorridenti, magari è davvero pretattica, però nessuno sa dirti con certezza se giocheranno contro gli azzurri). Ed ecco anche lui: Romelu Menama Lukaku Bolingoli, centravanti di anni 28, alto un metro e 91 centimetri, 101 chili di muscoli più tutto il peso di una storia personale piena, forte, e per questo già molto raccontata.
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L'aneddoto della madre Adolphine che allunga il latte con l'acqua spiega qualcosa, non abbastanza. Anche il resto, roba parecchio tosta: le scarpe in condivisione con il padre Roger, ex calciatore di tecnica modesta che riesce a indossare la maglia gialloverde dello Zaire; la scoperta del dentifricio con il fratello Jordan, giocatore della Lazio, quando sono ormai grandi; la carne in scatola solo la domenica; le lampadine svitate per risparmiare. Povertà. Pura povertà.
lukaku da bambino
Eppure non sarebbe un racconto inedito (ci sono 5,6 milioni di italiani - dato del 2020 - precipitati a vivere sotto quella soglia). Ma Lukaku è cresciuto ad Anversa. Un bambino con la pelle nera, ad Anversa.
Per capirci: giocava nelle giovanili del Lierse, un club locale. Già alto, già con un fisico non comune. Allora un pomeriggio, prima di una partita, il padre di un avversario lo ferma nel corridoio degli spogliatoi, lo attacca al muro e inizia a urlargli in faccia: «Ma quanti anni hai? Di dove sei? Facci vedere i documenti, gigante».
Razzismo, discriminazioni, umiliazioni. Prima di entrare sul terreno di gioco e a scuola, alla fermata dell'autobus, al pub. Poi, una mattina dell'anno scorso, di questi tempi, Lukaku accende il computer e legge: ad Anversa, durante le manifestazioni in favore del movimento Black Lives Matter, la statua di Leopoldo II, il re che ha ridotto il Congo in schiavitù, è stata abbattuta.
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I genitori di Lukaku sono nati in Congo. Tutto torna. Così sapete cosa significa per lui quell'inginocchiarsi prima del fischio d'inizio, e chiudere gli occhi, e concentrarsi, e alzare il pugno chiuso. La sua non è una biografia: è uno spot contro ogni intolleranza.
lukaku da giovane
Quando il ragazzone firma il suo primo contratto con l'Anderlecht - poi Chelsea, West Bromwich, Everton, Manchester United e Inter - sceglie Vincent Kompany, simbolo del Belgio multietnico, come idolo. Adesso - volendo in cinque lingue, perché ne conosce cinque (inglese, tedesco, portoghese, spagnolo e italiano) - spiega: «Per rabbia e per riscatto volevo diventare il miglior giocatore nella storia del Belgio. Non uno bravo. Non un grande. Il migliore». Non è stato facile. «Per un sacco di tempo, se segnavo: ero Lukaku, l'attaccante belga. Se sbagliavo: ero Lukaku, l'attaccante belga di origini congolesi».
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Lo ammette senza sembrare spavaldo: «Difficile che qualcosa riesca a spaventarmi».
Appunto: nemmeno Ibra. Che lo scorso inverno, durante il derby, ha la brillante idea di spifferargli: «Go to your voodoo shit, you little donkey» («Torna alle tue cagate voodoo, piccolo asino»). Andate rivedervi il filmato su YouTube.
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Roberto Mancini, in queste ore, ne ha fatti vedere altri agli azzurri. Ci fossero De Bruyne, che spesso riesce a saltare l'uomo, e va in campo aperto, e Hazard, che arriva da sinistra (talvolta raddoppiato dal fratello), per Lukaku è più facile.
Però è quasi certo che almeno uno dei due infortunati non venga rischiato dall'inizio. Martinez ha fatto sostenere l'ultimo allenamento a Tubize, la Coverciano belga: ed è assai probabile che abbia voluto provare qualche soluzione alternativa.
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Comunque: anche osservato ora, mentre cammina sul prato dell'Allianz insieme ai compagni, Lukaku fa, letteralmente, spavento. Dries Mertens gli arriva all'anca. E poi ha sempre questa smorfia larga che non è esattamente un sorriso, ma un magnifico miscuglio di orgoglio e rabbia, allegria e carisma (non dimentichiamoci che, poco più di un mese fa, sul tetto di una macchina, sventolando una bandiera nerazzurra, si proclamò «il re di Milano»). Non si capisce bene chi dei nostri lo marcherà. A chiunque capiti: coraggio.
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