Ilaria Ravarino per “il Messaggero”
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Stadi pieni, milioni di dischi venduti, canzoni che facevano il giro del mondo. Avevamo un tesoro per le mani e non ci siamo accorti di quanto fosse prezioso. Si chiama italo disco ed è il fenomeno musicale che ha proiettato, negli anni Ottanta, la disco music italiana al vertice delle classifiche europee, con brani come I like Chopin di Gazebo, Dolce Vita di Ryan Paris, No tengo dinero dei Righeira o super gruppi come le Flirts del produttore Bobby Orlando.
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IL FESTIVAL
Un momento bollato forse troppo frettolosamente come trash e superficiale, che a distanza di quarant' anni - riscoperto dal popolo della rete, e da festival come il Mir Tech di Rimini, aperto ieri con un omaggio al dj Claudio Coccoluto, scomparso un anno fa - sta tornando. Ne parla il regista lombardo Alessandro Melazzini, 47 anni, in un (bel) documentario, Italo Disco. Il suono scintillante degli anni 80, mostrato ieri a Roma in chiusura del festival del cinema tedesco, distribuito in Germania dal canale Arte, in Italia dalla Rai e pronto per la tournée nei festival internazionali (sarà a maggio al Bellaria Film Festival).
«L'italo disco fu un fenomeno economico e sociale che racconta un'Italia artigianale ma geniale», spiega Melazzini, che da anni vive e lavora a Monaco di Baviera, «è un universo enorme, fatto di cantanti, produttori e compositori. Persone incredibilmente creative, esplose all'estero, soprattutto in Germania, e ancora poco conosciute in Italia».
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Musicisti come i fratelli Carmelo e Michelangelo La Bionda, inventori di Vamos a la Playa dei Righeira e produttori di Amanda Lear, «così famosi che nel loro studio di registrazione a Milano i Depeche Mode vennero a registrare Personal Jesus», o come Savage, al secolo Roberto Zanetti, che con la sua Only You «riempiva l'Olympiastadion di Berlino» e negli anni 90 diventò produttore di grandi successi dance e di star come Alexia.
Madre del sound anni ottanta europeo, l'Italo disco era «il suono di un mondo in cui ci si gode la vita», cartolina d'Italia e delle sue discoteche avveniristiche (La baia degli angeli, l'Astromondo: luci strobo, robot e astronavi che decollavano per davvero) ritmi sintetici e testi in inglese, fisici tonici e forme da urlo in copertina poco importa se il volto sorridente sul disco non fosse poi quello del cantante (Den Harrow, corpo angelico in prestito alla voce di Tom Hooker).
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Un genere meno spensierato e innocente, spiegano i pionieri del genere nel film, di quanto non si credesse: «Vamos a la Playa era una canzone da spiaggia postatomica», racconta Stefano Righi, alias Johnson Righeira, «in cui l'apparente allegria nascondeva i riferimenti all'acqua fluorescente e ai bagliori nucleari dell'era atomica. Tutto il resto era incosciente ottimismo, una leggerezza alla Andy Wahol che ha permesso alle nostre musiche di durare fino a oggi. Le suonano anche alle feste per bambini».
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Un'epoca sottovalutata, come ha ripetuto spesso l'icona indiscussa del movimento, la genovese Sabrina Salerno, oggi 54enne esplosa nel 1987 con la hit Boys e nel 2023 di nuovo sul palco dello spettacolo evento Stars 80: «Non ci hanno mai presi sul serio. Tutti parlavano di musica usa e getta, di canzonette, quando fu un fenomeno culturale ed economico importantissimo: la musica italiana non ha mai venduto tanto all'estero. Dicevano che era trash, ma tutti, nella moda come nella musica, continuano ad attingere alle idee di quegli anni».
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Una musica che ebbe in Roma un luogo del cuore, come racconta nel documentario il dj Claudio Casalini, tra i fondatore del Gilda Club: «L'anima romantica dell'italo disco, quella che ebbe in Pierluigi Giombini (compositore di I like Chopin, ndr) il suo massimo esponente, si sviluppò a Roma. Mettendo così fine a uno stereotipo: che la musica per ballare si potesse fare solo a Milano».
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