Selvaggia Lucarelli per “il Fatto Quotidiano”
selvaggia lucarelli in giappone
Ci sono dei personaggi cinematografici in cui ti identifichi e non sai il perché. A me è accaduto anni fa, la prima volta che ho visto Lost in translation. Non somigliavo, ahimè, alla protagonista, non mi sentivo trascurata da un marito fotografo e non mi ero invaghita di un attore sul viale del tramonto. Il perché di quell' identificazione l'ho compreso quest' estate, quando anche io, come Scarlett Johansson, mi sono ritrovata in Giappone e ho avuto la netta sensazione di provare a capire questo paese meraviglioso, ma di perdere sempre qualcosa nel tentativo di tradurlo.
Era, insomma, un'identificazione che aveva il sapore della profezia. Qui di seguito, la lista di tutto quello che ho visto, annotato, scrutato e che al momento della traduzione, è inevitabilmente "lost in translation":
selvaggia lucarelli in giappone
1) L'ORIENTAMENTO. A Tokyo vivono 15 milioni di persone. La metà sono turisti che non sono mai più riusciti a tornare in hotel e vagano per la città in cerca di un incrocio familiare. È per questo che i famosi incroci di Shibuya e Shinjuku sono perennemente attraversati da migliaia di persone sulle strisce pedonali. Non è gente che va al lavoro, è gente che dice "Eppure io questo palazzo me lo ricordo...".
Del resto, la caratteristica principale del Giappone è la seguente: tu osservi questo paese e la tua idea sui giapponesi oscilla continuamente sulle due posizioni "sono dei fottuti geni" e "sono dei totali idioti". Quella di non dare un nome alle strade di una megalopoli, ad esempio, occupa il terzo posto nella classifica delle idee più scellerate del Sol Levante dopo Pearl Harbor e la moviola nelle schiacciate di "Mila e Shiro due cuori nella pallavolo".
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Ne consegue che i riferimenti per orientarsi siano gli hotel, i palazzi, le insegne sui palazzi che però spesso sono dei mega -schermi su cui l' immagine può cambiare venti volte in un giorno, quindi tu magari per tornare alla metro cercavi la facciata del grattacielo con la tizia che voleva venderti un tamagotchi vestita da studentessa al collage e invece ora c'è uno travestito da polipo che promuove un fondo di investimenti.
I giapponesi cercano di venirci pietosamente incontro con dei cartelloni piazzati in qualche angolo della città in cui spicca un YOUAREHERE su una mappa che però pare quella delle coordinate di un kamikaze su Okinawa, quindi identificarsi in quel puntino rosso circondato da ideogrammi giapponesi crea attacchi di panico di una certa entità. E ora lo so cosa starete pensando: " Beh, basta chiedere!". E qui veniamo al secondo paragrafo del capitolo "Lost in translation".
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2) LA GENTILEZZA. I giapponesi sono il popolo più gentile, ossequioso e garbato del pianeta. Spesso, quando si è in difficoltà, non c' è neanche bisogno di fermarli perché se loro ti vedono sul marciapiede con in mano una cartina al contrario e l' indice puntato sull' unico riferimento chiaro della mappa, e cioè la sagoma dell' aereo che fino a prova contraria indica l' aeroporto, vengono da te per aiutarti. Se li fermi tu e stanno correndo al lavoro, al tuo "Excuse me" si bloccano come se il raggio gamma di Godzilla li avesse folgorati all' istante.
Sono così gentili che nelle mie due settimane in Giappone ho fatto continuamente lo stesso sogno erotico: i responsabili dei customer service italiani che improvvisamente sono tutti giapponesi e io che chiamo Fastweb solo per sentirmi dire "È stanca? Come va la sua giornata?". Talvolta la faccenda si fa anche imbarazzante perché escono dai negozi per scortarti nel luogo che cercavi che magari è a due isolati e alla fine non sia se un grazie basta o gli devi pagare la rata del mutuo. Fin qui sarebbe tutto bellissimo se non fosse per un piccolo, lieve, trascurabile particolare. L' inglese sta ai giapponesi come Renzi al jogging.
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3) LA LINGUA. Tra tutte le note bizzarre di questo paese, la totale ignoranza in fatto di inglese del giapponese medio è la faccenda più sorprendente. Da un popolo così moderno ed evoluto uno s' aspetta che mastichi più inglese che foglie da tè e invece capita di entrare in una caffetteria in una delle vie principali di Tokyo e di dover chiamare su Skype Kay Rush per farsi tradurre in vivavoce la parola MILK.
I tassisti ti fanno salire col sorriso ma poi tu gli dici "Tokyo station" e loro accostano scuotendo la testa come se gli avessi chiesto "Ristorante Lo Zozzone, grazie". Io che con l' inglese sono ferma a The pen is on the table ho temuto che mi trattenessero in Giappone per fare da traduttrice all' imperatore Akihito alla prossima visita ufficiale di Cameron. Il guaio è che chiarita l' impossibilità di comunicare, loro continuano imperterriti a parlarti come se facendoci l' orecchio tu potessi cominciare a capire il giapponese lì, seduta stante. Le telefonate con le reception degli hotel diventano commedie dell' assurdo.
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Tu chiami chiedendo se hanno un asciugacapelli. Il tizio ti dice qualcosa che non sai se è "Un attimo" o la preghiera del Samurai prima dell' atto estremo. Silenzio. Risponde un altro che non capisce una mazza come il precedente. Silenzio. Voci concitate. Sinistro rumore di katane. Risponde il terzo giapponese che dice "Yes?" e tu per un attimo ci credi, ma poi a "Hairdryer" risponde "Sdraio?", "Saio?" "Luigi Di Maio?" e così via finché quando si è ormai alla fioritura dei ciliegi e i capelli li hai asciugati facendo aria col ventaglio delle geishe, la catena umana di colleghi si esaurisce con l' ultimo collega, quello scomodato solo in caso di estrema necessità, quello che custodisce il sapere, ovvero il corso d' inglese in dvd di Peter Sloan.
Il raro inglese parlato dai giapponesi è tipo l'italiano parlato da Razzi. Per utilizzare un' espressione tecnica direi "un po' alla cazzo" ma alla fine ci si capisce e ti ringraziano sempre allungando l' ultima parola con una vocale che va avanti tre minuti secchi. Come se noi dicessimo "Grazie è stato un piacere esserle d' aiuto o oo oo oo oo oo ooooooooooooo".
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4) I MEZZI DI TRASPORTO. Tokyo ha una rete di trasporti più fitta dell' agenda di Papa Francesco. C' è la metropolitana e poi una rete ferroviaria che copre praticamente tutta la città. Osservare la cartina con tutte le linee che si incrociano è rappresentazione del caos, ma osservare i turisti di spalle che osservano pietrificati come di fronte all' Immenso la cartina affissa sul muro è dadaismo. Eppure, inspiegabilmente, funziona tutto alla perfezione nonostante la complessità dell' ingranaggio, tant' è che nella lista dei fenomeni potenzialmente fatali per la città di Tokyo ci sono il grande terremoto, il grande tsunami e Ignazio Marino.
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Confermo la presenza di un numero massiccio di giapponesi che sui mezzi dormono come se sugli schermi nei vagoni anziché il percorso del treno trasmettessero il programma di Riotta. Segnalo poi, sempre sulla metro, la presenza di continue musichette tipo Pac-man che nei soggetti psicotici, al rientro in casa, potrebbero indurre a sterminare la famiglia e infine la cosa più importante: a prendere la metro giusta, dopo un po' di pratica, si impara. Il problema, una volta scesi alla vostra fermata, è sapere quale sia l' uscita corretta perché se si sbaglia l' uscita e si prende la Est anziché la Ovest, anziché a Shinjuku si può uscire a Tivoli.
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