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    DENTRO L'INFERNO DEL CORONAVIRUS - IL RIANIMATORE DELL'OSPEDALE DI BERGAMO: ''QUANDO NON SONO PIÙ RIUSCITO A RESPIRARE, HO TEMUTO DI NON RIVEDERE MIA MOGLIE E I NOSTRI QUATTRO FIGLI. FINO A QUELL’ISTANTE AVEVO CURATO GLI ALTRI. HO VISTO PAZIENTI MORIRE, CONOSCO LA SUA AGGRESSIVITÀ. MA A CHI STA LOTTANDO DICO DI NON FARSI PARALIZZARE DALLA PAURA PERCHÉ…''


     
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    Giampaolo Visetti per ''La Repubblica''

     

    ospedale papa giovanni bergamo ospedale papa giovanni bergamo

    Quando non sono più riuscito a respirare, ho temuto di non rivedere mia moglie e i nostri quattro figli. Fino a quell’istante avevo curato gli altri attaccati dal coronavirus. Ho visto pazienti morire, conosco la sua aggressività. Così ho pensato che magari il momento del congedo era venuto anche per me». Angelo Vavassori, 53 anni di Treviolo, rianimatore nell’ospedale di Bergamo, racconta dal suo letto di terapia sub-intensiva come si precipita nell’incubo Covid-19 e come si torna alla vita. «In poche ore — dice a Repubblica — sono passato da 15 a 40 respiri al minuto. Non mi entrava più aria nei polmoni e ho quasi perso la vista. Se sono qui lo devo ai miei colleghi medici, eroi non retorici. Nei momenti più duri mi hanno fatto sentire tranquillo. La mia storia, in ore nere, può aiutare molti a non lasciarsi andare».

     

    Come ha capito di essere stato contagiato?

    «Dal 22 febbraio ho curato i primi infettati. Dal 28 il mio reparto di rianimazione è stato riservato a loro. Sabato 29 mi è salita un po’ di febbre, ma sono giorni difficili e anche domenica ho finito il turno a mezzanotte. Lunedì mattina stavo bene, verso sera avevo già 38,9 di febbre».

     

    Come ha reagito?

    «Il paracetamolo era inutile. Ho fatto due conti: se il Covid-19 mi aveva attaccato, non poteva averlo fatto quando, protetto, curavo gli altri infettati. È successo prima: a contatto con i miei pazienti chirurgici. La terapia intensiva scoppiava, mi sono chiuso in una stanza di casa».

    angelo vavassori rianimatore angelo vavassori rianimatore

     

    La sua famiglia non ha temuto il contagio?

    «Per due giorni mi hanno lasciato il cibo davanti alla porta chiusa. Lo ritiravo con guanti e mascherina, poi disinfettavo tutto. Comunicavamo al telefono. Non è bastato: mia moglie e il figlio più grande di 18 anni sono rimasti contagiati. I gemelli di 14 anni e la bambina di 11, per ora no».

     

    Quando è precipitata la situazione?

    «Mercoledì 4 marzo mi hanno fatto il tampone, giovedì è stata confermata la positività. La febbre restava attorno 39. La sera ho cominciato a respirare a fatica. In pochi minuti ho perso olfatto e gusto, ci vedevo sempre meno. Per la carenza di ossigeno sono saliti anche mal di testa e dissenteria».

     

    Chi l’ha portata in ospedale?

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    «Ho telefonato io, ma non c’era posto. Sapevo di non poter resistere a lungo. Respiravo, ma nei polmoni non entrava più ossigeno. Alle 23 mi ha chiamato un collega per dirmi che si era liberato un letto. La radiografia ha confermato che la polmonite era scoppiata».

     

    Come è stato curato?

    «La dispnea toglie totalmente il fiato. Mi hanno infilato subito nel casco Peep a pressione di fine respirazione positiva. Ho provato a farcela senza essere sedato e intubato. Si perde comunque conoscenza, non è stato facile».

     

    Qual è il momento più duro?

    «L’inizio. Nel casco della ventilazione il rumore è assordante, il flusso dell’ossigeno è caldo. Si suda e sembra di soffocare ancora più di prima. Invece un po’ alla volta senti che se tiri, entra aria. Sono un rianimatore, per giorni ho curato i contagiati: conoscere le loro reazioni mi ha aiutato a resistere».

     

    Quali medicine le hanno dato?

    «Il cocktail di antiretrovirali previsto dal protocollo. Serve a concedere tempo agli anticorpi, che inglobano e bloccano il virus prima che comprometta i polmoni. I macrofagi assorbono poi sia il virus morto che gli anticorpi».

     

    Quanto tempo ha impiegato per tornare alla vita?

    «Per un paio di giorni sono stato assente. Avverti nel sonno che medici e macchine ti infondono ossigeno e ti idratano. Il tempo si concentra in un istante: ora so che è questa accelerazione che cancella passato e presente, il confine tra la vita e la morte».

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    Come è stato il risveglio?

    «Pensavo di essere a casa, appena assopito. Invece nel letto accanto al mio c’era un paziente che avevo curato io per il Covid-19. Come ai bambini, ogni cosa appare nuova e straordinaria. Questo dramma ci insegna il valore di ogni piccola cosa».

     

    Ora dove si trova?

    «Sono in gastroenterologia, riconvertita al Covid-19. Respiro con una mascherina che rilascia ossigeno al 70%, circa 12 litri al minuto. Accanto a me ci sono i miei malati: sono sorpresi quando capiscono che mi sono trasformato in uno di loro».

     

    Cosa vuole dire a chi sta lottando, come lei, per sopravvivere?

    «Di non farsi paralizzare dalla paura. Bisogna restare tranquilli e affidarsi ai medici. Ti tirano fuori, ogni polmonite regredisce. La mia preoccupazione però è un’altra».

     

    Quale?

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    «Se penso ai medici e agli infermieri del nostro Paese mi commuovo. Siamo allo stremo e sappiamo che la battaglia resta lunga. Chiedo a tutti di aiutarci restando in casa. È così che ci si sta vicino. Io poi da lunedì spero di ritornare al lavoro».

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