Giusi Fasano per corriere.it
angelo licheri
Angelo rivede se stesso in fondo al pozzo, a testa in giù. «Il bambino era a 64 metri di profondità. Gli ho tolto il fango dagli occhi e dalla bocca e ho cominciato a parlargli, dolcemente. So che capiva tutto. Non riusciva a rispondere ma l’ho sentito rantolare e per me era quella la sua risposta. Quando smettevo di parlare rantolava più forte, come per dirmi: continua che ti sto ascoltando. Dopo vari tentativi andati a vuoto, l’ultimo che ho fatto è stato prenderlo per la canottierina, ma appena hanno cominciato a tirare ho sentito che cedeva... E allora gli ho mandato un bacino e sono venuto via. Ciao piccolino».
Lacrime e fango
rampi
Nelle fotografie che scattarono appena uscì dal pozzo, Angelo Licheri aveva le guance rigate da lacrime e fango. E aveva la pelle scorticata, sangue ovunque per le lacerazioni alle gambe, alle braccia, alla schiena. Ma la ferita che faceva più male, quella che non sarebbe guarita mai, era la sconfitta. Non era riuscito a salvare Alfredino, non era stato possibile strapparlo dal buio nel quale era precipitato, chissà come, la sera del 10 giugno 1981.
Alfredo Rampi per tutti Alfredino, aveva sei anni. Era in vacanza con i suoi genitori nella casa di Vermicino, Roma. Il pomeriggio di quel 10 giugno, alla fine di una passeggiata con il padre Ferdinando, fece uno dei suoi sorrisi irresistibili e chiese: «Papà, posso tornare per i campi da solo?». L’uomo acconsentì e lo vide allontanarsi felice verso casa. Due ore dopo lungo quello stesso percorso c’erano decine di persone a chiamare il suo nome. Alfredino era scomparso.
Sua nonna pensò subito al pozzo scavato da poco nel terreno vicino casa, ma su quel pozzo c’era una lamiera e sulla lamiera delle pietre a tenerla ferma. Impossibile che fosse lì dentro, si convinsero tutti. Tutti tranne un agente di polizia che fece sollevare la lamiera e infilò la testa nel buco. Dal fondo arrivavano dei lamenti. Si saprà poi che il proprietario del pozzo, ignaro della tragedia, aveva coperto la superficie poco prima che cominciassero le ricerche.
angelo licheri
La decisione
Angelo Licheri, sardo di Gavoi, all’epoca aveva 37 anni, era padre di tre bimbi piccoli e faceva il fattorino per una tipografia, a Roma. Fu anche lui uno dei 32 milioni di telespettatori incollati alla televisione per seguire la diretta no stop della Rai sulle operazioni di salvataggio di quel bambino. Rimase davanti allo schermo per due giorni finché la sera del 12 giugno disse alla donna che allora era sua moglie: «Esco a prendere le sigarette». E lei: «Fra mezz’ora è pronta la cena». Lo vide uscire e - confesserà dopo - le venne spontaneo un pensiero: «Vuoi vedere che quel pazzo vuole andare a Vermicino...».
Nelle ore precedenti lo aveva visto davanti allo specchio fare strane contorsioni con le braccia in alto. «Che fai?» aveva chiesto. «Niente, un po’ di ginnastica», aveva risposto lui. Ma cos’altro poteva essere quella strana ginnastica se non prove immaginarie di movimenti nel pozzo? Lei non disse nulla ma capì.
alfredino rampi e il fratello
Anche perché era una delle poche persone a sapere di una vecchia avventura di Angelo, tanti anni prima. C’era stato un incendio sui monti dalle parti di Nuoro e lui, come tutti, stava scappando. Ma si ricordò che lassù c’era una colonia di bambini e allora si mise in mezzo alla strada a urlare agli automobilisti che tornassero indietro a salvarli. Lui stesso lo fece caricando quelli che poteva sulla sella del suo motorino. «Adesso per colpa del diabete non ho più una gamba e sono quasi cieco, ma davanti ai bambini che hanno bisogno di aiuto sarei capace di fare qualsiasi cosa anche così malmesso», giura quest’uomo che sembra ancora più piccolo di quanto lo descrissero le cronache dal pozzo di Vermicino.
La bugia
tragedia vermicino
«Non sapevo nemmeno dove fosse quel posto», racconta lui oggi tornando a quei giorni. «Ricordo solo che ho fatto tutte le infrazioni possibili per arrivarci. Mi sono fatto l’ultimo tratto a piedi, sono arrivato davanti al blocco e non mi hanno fatto passare, ma non avrei ceduto per niente al mondo. Così ho costeggiato una via che portava al pozzo e, come un ladro, sono passato in mezzo a una vigna finché ci sono arrivato davanti. C’era un cordone di militari e mi sono detto: e adesso che faccio? A quello che mi ha bloccato ho detto che mi aspettava il capo dei pompieri: puoi andare a dirgli che è arrivato Angelo? Lui è andato e io mi sono infilato fra i soccorritori. In mezzo a loro c’era Franca, la mamma di Alfredino. Al capo dei vigili del fuoco ho detto: sono piccolo, fatemi scendere. E lui: lei è troppo emotivo. Ha qualche malattia, qualche problema... L’ho interrotto. Gli ho detto: senta, io sto benissimo, voglio solo scendere. La mia determinazione è stata più forte dei loro no alla fine l’ho vinta io».
tragedia vermicino
Discesa fra rocce taglienti e fango che veniva giù dalle pareti sempre più strette. Era la notte fra il 12 e il 13 giugno. Angelo raggiunse Alfredino dopo venti minuti. La luce fioca della sua torcia illuminò quel bambino incastrato in un punto largo 28 centimetri. «Gli tolsi il fango dagli occhietti e dalla bocca e cominciai a fargli promesse che avrei senz’altro mantenuto» ricorda lui. «Gli dissi: ho tre bambini e uno è più piccolo di te. Hanno tutti la bicicletta. Sai che facciamo? Appena usciamo ne compro una anche a te, vedrai che sarai orgoglioso di questa bici nuova. E poi ti compro anche una barchetta, mi hanno detto che sai pescare bene... Lui emetteva quel rantolo che è qui, nella mia testa...» Lo imbragò una prima volta e diede il segnale alla squadra in superficie. Ma lo strattone fu troppo forte e la cinghia scivolò fuori dalle braccia. La rimise e tentarono ancora ma stavolta fu il moschettone a sganciarsi. «Ho provato a prenderlo per i gomiti ma niente, non si riusciva. Alla fine l’ho afferrato per i polsi e nel tentativo di tirarlo su gli ho rotto quello sinistro. Ho sentito un lamento, lieve. Non aveva più forze, povera creatura. Gli ho detto: dopo tutta la sofferenza che hai patito ci mancavo proprio io a farti ancora più male».
Il ricordo
L’avrà raccontata mille volte, Angelo, questa storia. Ma ogni volta, quando arriva qui deve fermarsi. Respirare. Arrendersi al ricordo più amaro: le sue mani aggrappate alla canottiera di Alfredino, il fallimento di quell’ultimo tentativo. La resa. «Gli ho mandato un bacino e sono venuto via».
licheri
Angelo è rimasto nel pozzo a testa in giù per 45 minuti, ben oltre i limiti massimi di resistenza ipotizzati. «Quando mi tirarono su mi ritrovai davanti alla mamma di Alfredino. Venne da me e mise le sue mani sulle mie guance: mi dica come sta il mio bambino, chiese. Io fui sincero: signora, è ancora vivo ma se non si fa in fretta non so quanto potrà resistere. Ancora oggi ogni tanto la sento per un saluto».
Alfredino morì poche ore dopo. Oggi la vita di Angelo, 75 anni, è in una casa di cura a Nettuno, sud di Roma. «Una noia indescrivibile e tante sigarette», per dirla con le sue parole. Il fantasma di Alfredino gli vive accanto da 38 primavere. «Per anni», racconta lui, «ho sognato la morte con la falce sulle spalle che veniva a prenderlo. Io stavo lì a proteggere un pozzo e le dicevo: lo vuoi? Devi fare la guerra con me se lo vuoi. Lei se ne andava ridendo e mi diceva: ci rivedremo». Angelo sorride. «Io sono qui, non ho paura».