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Angelo Carotenuto per “la Repubblica”
Il testamento che Totti non vuol firmare è dentro un video che dura il tempo in cui Gino Paoli canta “Il cielo in una stanza”. Quando sei qui con me, esce Keita e il capitano mette piede in campo. Minuto 85 e 30” di Roma-Torino, risultato 1-2.
Così comincia quest’attimo lunghissimo, chiuso dentro una bolla che danza sopra l’Olimpico, oltre il tempo, un attimo di due gol in due minuti e quaranta secondi, al termine dei quali tutto sarà diverso e tutto in fondo resta come prima. Keita s’avvia in panchina come sconfitto. Contento non è. Se solo sapesse che sta cambiando la partita. Uscendo.
Entrando, Totti l’ha già cambiata con il Bologna, un assist per il gol del pari di Salah in 45 minuti. L’ha ricambiata contro l’Atalanta sei giorni dopo, un colpo di destro, un altro pareggio, 3-3, e palla della possibile vittoria servita a Dzeko, lasciamo stare. Tutto stavolta in 12 minuti. E come in un videogame che ti dà accesso al livello superiore e più complesso, ora contro il Torino gliene rimangono quattro. «Forse dovevo farlo entrare prima», dirà Spalletti. Forse. Almeno sorride.
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Questa stanza non ha più pareti ma alberi.
I quattro minuti di febbraio con il Real, presentati come un omaggio al campione, furono vissuti da Totti come un’offesa. Un’onta da lavare davanti al microfono del Tg1. Due mesi e tre giorni dopo, questi stessi quattro minuti che Spalletti gli offre sperando chissà che cosa - certo non quello che incasserà - iniziano con la medesima corsetta a testa alta verso l’area di rigore e si esauriscono in modo opposto. Questo nostro vecchio vizio di giudicare una storia dal finale. C’è Pjanic che sta per battere una punizione. Volendo, Totti potrebbe farsela lasciare.
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Se non lo fa è perché non vuole. Tira dritto. Non si ferma. È dentro che ha deciso di andare. Dei margini dev’essersi stancato. Nel cuore, allora. Anche se quel posto in fondo non gli appartiene. Diciotto secondi di gioco fermo, altri quattro perché la palla finisca là dove deve. L’occhio di chi guarda coglie soltanto che sbuca da un mucchio e si corica in porta.
Ma la testa sa già cos’è successo, la testa sa chi è stato a buttarla dentro. Quando si alza la schiuma in area di rigore, sono sempre gli stessi ad arrivare per primi sulla palla, quelli che sanno dove aspettarla, e là si fanno trovare, sicuri, pazienti, perfino pettinati e sorridenti, come Pablito Rossi al Bernabéu nella finale mondiale ‘82 con la Germania, come Francesco Totti adesso e qui.
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Suona un’armonica mi sembra un organo che vibra.
Il modo, poi. Quella spaccata. Se avesse ancora vent’anni, Totti si lancerebbe proprio così. Solo che venti non ne ha più, e neppure trenta, a settembre sono quaranta, e proprio perciò bisogna colpirla allo stesso modo, per non smettere di illudersi proprio adesso che su un campo di calcio il tempo non passa mai.
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Il vecchio e il bambino fusi in un corpo solo. Un corpo che per Roma è simbolo, è palpito, porta alle lacrime per un 2-2, sì, un 2-2, non è questo il posto in cui vincere è la sola cosa che conta. Del Piero fu licenziato con una nota dell’assemblea dei soci. Maldini non ha più messo piede al Milan. Antognoni ruppe con la Fiorentina. Perciò questo sipario che Totti respinge piace pure a juventini, milanisti, perfino ai laziali.
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Vorrebbero averla vissuta tutti l’esperienza di farsi carne con il proprio idolo per l’eternità. Lui che urla ti amo per Ilary rimasta a casa, perché uscire e andare allo stadio, ah France’, per 4 minuti adesso è troppo. Lei s’è finanche addormentata sul divano, eppure lo vede mentre piazza la palla venti centimetri oltre il cerchio di gesso, allungando lo spazio come prolunga il tempo. Totti sa che non è una notte da cucchiaio. Sa che con quel tiro si sta forse giocando l’ultimo scatto per i fotografi.
Allora si rifugia nel gesto suo, il tiro secco e basso che stavolta neppure lo spirito di Yashin gli avrebbe mai parato. Ecco. Smettere pare meno amaro. Non è più un obbligo triste, ma una scelta, un vero addio. Dopo questi due gol colti in un attimo lunghissimo, può diventare un desiderio. Di questo si nutre il suo rapporto con Roma. Di desiderio. Direbbe Paoli: su nell’immensità del ciel. E noi lasciamoglielo dire.
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