Malcom Pagani per Vanity Fair
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Pierfrancesco Favino, linea d’ombra: «È il 2002. Sono nel deserto, nei panni del sergente Rizzo, sul set di El Alamein. Un assistente di produzione mi viene incontro e mi guarda in modo strano. “Chiama tua sorella”, dice, poi abbassa gli occhi. Rientro in roulotte e le telefono. “Papà non c’è più”, sussurra lei. Riaggancio e ho un momento di totale scollamento dalla realtà. Mi osservo allo specchio. Nell’immagine riflessa c’è un tipo che mi somiglia vestito in modo strano. Esco all’aria aperta.
È prevista la scena del suicidio di Silvio Orlando. Mi chiedono se me la senta di partecipare. Mi hanno già permesso di andarlo a trovare in precedenza e so che non potrò ripartire. Decido di girare. Ho un ombrellino variopinto in mano e mentre aspetto il mio turno su una sedia, il dolore mi attraversa a ondate. Mi ferisce e prima di tornare come una fitta, lascia spazio a un’assurda euforia. Mi sento una balla di fieno trasportata dal vento in un film western. Quando torno a casa, al posto di papà, c’è una pietra col suo nome».
Hammamet, domenica di maggio. Il film di Amelio su Bettino Craxi è in pausa proprio come il suo interprete. Intorno strade vuote, vento freddo, sabbia che si solleva a folate. Ancora Africa, proprio come allora: «È la prima volta che parlo di quel momento e non so neanche il perché. Però so che quello è l’esatto istante in cui ho smesso di essere ragazzo e sono diventato uomo». A un solo quadrimestre dai suoi cinquant’anni, a Favino non vengono in mente né pagelle né bilanci.
pierfrancesco favino nei panni di tommaso buscetta il traditore 1
Si sente sempre sotto esame: «Faccio ancora seminari teatrali per migliorarmi», non ha rimpianti: «Qualche scelta l’ho sbagliata e qualche volta non sono stato preso. Facevo fatica ad accettare i rifiuti, ma oggi so che nella stragrande maggioranza dei casi chi non mi ha scelto in passato aveva le sue ragioni. Non mi sono mai lasciato prendere dalla autocommiserazione, se non mi ingaggiavano mi sono sempre chiesto cosa avessi fatto io per non essere riuscito a convincerli». Nel tempo, con il successo, ha scoperto che sublimare l’antico desiderio di fare l’attore non gli ha fatto incontrare la sazietà. Voleva interpretare a ogni costo Tommaso Buscetta nel Traditore di Marco Bellocchio e intravedendo uno spiraglio dietro a una porta chiusa ha persuaso il regista ad aprire l’uscio: «Sentivo che non era stato proprio convinto dal mio primo provino. Sapevo che non era andato come volevo. E il fatto che non mi telefonasse nessuno era tutto tranne che un buon segno».
E allora cosa ha fatto?
«Ero consapevole che avrei potuto giocarmela meglio e sono ricorso a una mossa a cui non mi ero mai appellato nella vita. Non volevo dirmi “non hai fatto tutto quello che potevi per raggiungere il tuo obiettivo”. Quindi l’ho incontrato e gli ho detto “Marco, vorrei convincerti che posso interpretare questo ruolo”. Mi ha dato un’altra occasione e alla fine mi ha aperto il suo mondo».
pierfrancesco favino nei panni di tommaso buscetta il traditore
Che mondo è?
«Un mondo apparentemente ruvido nel quale è lui a decidere se puoi stare oppure no. Una volta trovata la chiave, è un viaggio straordinario fitto di aperture mentali, ricerca, emozioni, intimità. Raramente mi era capitato di essere così ascoltato e altrettanto di rado mi è accaduto di trovare un regista così attento a lasciare spazio alla libertà creativa. Il set non è luogo in cui fai ciò che hai deciso precedentemente o nel quale mettere in scena quel che c’è scritto sul copione, ma lo spazio in cui vai a trovare con l’invenzione e la fantasia ciò che messa in scena e sceneggiatura ti suggeriscono. Marco sa cos’è un interprete».
Il traditore è l’unico film italiano in concorso a Cannes.
«Sono entusiasta, anzi di più. È una bandierina messa su un percorso sudatissimo. Al traguardo arrivo nel momento giusto per me. Ho studiato tanto. Studiare forse ti rallenta, ma io volevo intraprendere un percorso, trasformare le nozioni in sfumature».
pierfrancesco favino il traditore
Ora quelle sfumature arrivano al Festival cinematografico più importante del mondo.
«Ma lei sa che Bellocchio neanche me l’ha detto? Mi telefona e mi chiede: “Secondo te uscire in sala a maggio è una buona idea?”. Voleva dire che eravamo stati selezionati per il concorso ufficiale. Ma ha scelto un’ellissi. È dispettoso Marco, meravigliosamente dispettoso».
La sua metamorfosi nei panni di Tommaso Buscetta, l’ex boss che da collaboratore di giustizia permise a Giovanni Falcone di istruire anche grazie alle sue rivelazioni il Maxiprocesso che portò alla sbarra oltre 400 mafiosi, è sorprendente.
«Per avvicinarmi al personaggio ho tenuto a mente una cosa: tutto ciò che noi sappiamo di Buscetta lo sappiamo perché Buscetta voleva che noi lo sapessimo. Il mio tentativo è stato di scoprire ciò che lui non voleva che si sapesse».
Come ha fatto?
pierfrancesco favino con marco bellocchio sul set de il traditore
«Ho lavorato da cronista. Una ricerca anche pericolosa perché sono entrato in contatto con realtà che mi hanno permesso di capire l’ampiezza delle risposte che stavo cercando. Se accetti di conoscere certe verità, soprattutto se a rivelartele sono fonti attendibili, entri a far parte del problema. Qualcosa rischi e molto comprendi».
Lei cosa ha compreso?
«Che esiste una distinzione netta tra mentalità mafiosa e mafia. La mafia è l’organizzazione criminale, ma la mentalità mafiosa non esiste solo in Sicilia, sopravvive da secoli ed è diffusa ovunque. Ragionare su quest’aspetto mi ha consentito di vedere cose che sono diverse da come appaiono e mi ha permesso di guardare al Maxiprocesso in un altro modo. È una questione di segno, di linguaggio, di piani narrativi. La mafia ha tanti vocabolari, tanti modi di esprimersi, tanti codici».
Anche Buscetta ne incarna tanti?
tommaso buscetta e favino
«Buscetta è l’ultimo di 17 figli ed entra nell’organizzazione mafiosa senza che i suoi parenti provengano da quel mondo. C’è un solo modo per entrarci: provare il tuo coraggio. Uccidere qualcuno. Allo stesso tempo però è un personaggio quasi letterario. Una testa matta. Uno che sostiene di essere stato da adolescente a Napoli a combattere contro i nazisti durante le 4 giornate. Un individuo dall’enorme carisma e dalle grandi capacità che vive una vera vita da gangster anni ’50. Amante delle donne su cui esercita un fascino irresistibile e della bella vita. Capace di incontrare in un night la moglie del batterista di Carosone, “rapirla” al volo e farci due figlie nonostante fosse già sposato».
Vita avventurosa e romanzesca.
pierfrancesco favino nei panni di bettino craxi in hammamet
«Vive avventurosamente, vede mondi che i mafiosi non hanno mai visto ed è uno Zelig capace come nessuno di vestire i panni adatti alle cose che gli cambiano intorno con l’abilità di saper leggere le condizioni storiche nelle quali viveva per portarle a suo vantaggio. Lascia la Sicilia e va in Argentina, poi torna in Brasile e sposa la figlia di un avvocato di grido. Al loro matrimonio, per dire, il testimone di nozze è l’ex presidente brasiliano all’epoca del regime militare. Buscetta sfiora il Golpe Borghese e nel suo lungo peregrinare tra un carcere e l’altro ha rapporti con terroristi neri e rossi. A un certo punto gli viene persino chiesto di carpire notizie sul rapimento di Aldo Moro. È un soldato, ma ha anche le sue debolezze».
Quali?
pierfrancesco favino nei panni di bettino craxi in hammamet 1
«Gioca al casinò, dove vince sempre e dove a un certo punto non vogliono più farlo entrare ed è pervaso dalla vanità. È terrorizzato dall’idea di invecchiare. È alla perenne ricerca di uno status. Non a caso uno dei suoi miti è Gianni Agnelli. Sa cosa diceva l’avvocato del Buscetta tifoso juventino? Tifare per la Juventus è l’unica cosa di cui non dovrà pentirsi». (Sorride).
Buscetta è anche un uomo misterioso?
«Del mistero Buscetta venire a capo è impossibile. Si è portato nella tomba segreti che forse è meglio non conoscere».
Giovanni Falcone, prima di morire a Capaci, ci proverà.
«Non ho mai creduto alla loro amicizia, ma credo si rispettassero e penso che il rispetto guadagnato da Buscetta sia stata una medaglia per Buscetta e non il contrario. Falcone stesso dice che tra i due collaboratori gli è stato più utile Totuccio Contorno in quanto meno manipolatorio».
anna ferzetti pierfrancesco favino
Il rispetto però esiste.
«Pensi solo a come Buscetta si rivolge a Falcone la prima volta che lo incontra in Brasile prima dell’estradizione. Lo chiama dottore. È un segno di rispetto chiaro, l’indizio che illumina la sua volontà di collaborare. Se lo avesse chiamato signore, come Buscetta fa in aula nei confronti dell’antico sodale poi diventato nemico Pippo Calò, avrebbe espresso con chiarezza il suo disprezzo. Il mafioso è un don, se lo chiami signore lo stai insultando allo scopo di fargli andare il sangue alla testa».
Al di là del rispetto reciproco che rapporto si instaurò secondo lei tra Falcone e Buscetta?
«Il rapporto tra due predestinati. “Bisogna solo decidere chi muore per primo”, dice il boss al giudice. Sa di cosa parla».
pierfrancesco favino anna ferzetti (1)
Buscetta vive gli ultimi anni della sua vita con il timore di essere ucciso.
«È un timore con il quale convive molto prima di essere arrestato in Brasile e decidersi a collaborare con la giustizia. Sul tema, tra realtà e leggenda ci sono qui e là racconti incredibili. In un certo periodo della sua vita Buscetta è a New York. Nel suo gioco continuo di prestanomi, import-export, società fittizie e scatole cinesi utili a coprire le tante attività illecite, apre anche delle pizzerie al Bronx dove provano pure a rapinarlo vedendolo reagire a colpi di pala. Ma veniamo al punto».
Veniamoci.
claudio baglioni pierfrancesco favino
«Una sera senza annunciarsi va a trovarlo il fratello del mafioso Gambino. La famiglia, quando Buscetta arriva a New York, gli offre 25 mila dollari che lui rifiuta sdegnosamente e adesso Gambino è lì e lui non sa perché. È disarmato, si sente in pericolo e tenendo una mano dietro la schiena, per proteggersi, fa finta di avere una pistola. Gambino gli chiede di fare un giro in macchina e lui riflette: “Se andiamo fuori città sono fottuto”. Gambino punta verso la periferia e quando nei dintorni del Queens ferma l’auto nel nulla Buscetta pensa a un’esecuzione. Crede sia arrivato il suo momento.
pierfrancesco favino
Dice a Gambino: “Se scendi ti sparo” e quello, sorpreso, ribatte: “Devo solo pisciare”. “Fallo qui, fattela addosso”. E lo costringe a farlo. Ripartono e arrivano in un capannone. Invece dell’agguato, Buscetta trova un comitato d’accoglienza. Vogliono solo festeggiarlo. Gambino senior però viene a conoscenza della cosa e si irrita: “Alla terza che mi fai ti ammazzo davvero”. Buscetta non se lo fa ripetere e poco dopo emigra in Brasile dove viveva in una fazenda grande come uno Stato e dove, come sappiamo, con il traffico di droga internazionale lascerà un segno».
Tra pochi mesi compirà 50 anni. Pensa mai al segno che sta lasciando lei?
«Mai. Son stato sempre un diesel e nonostante abbia spesso morso il freno, in realtà penso che le cose belle per me arrivano quando devono arrivare. C’è stato un momento in cui non capivo perché non mi accadessero, ora non più. Non sono mai stato il ventenne bello o maledetto e ora che ho quasi 50 anni, un periodo della vita verso il quale da giovane mi proiettavo con angoscia, sono in pace con me stesso. Non me li sento, 50 anni. E pur dovendo ancora imparare qualcosa, credo di essere nel pieno della maturità espressiva. È come se tutto ciò che ho appreso fino a ora lasci spazio alla libertà di interpretare e, grazie a dio, non al manierismo. Quando mi chiedono di essere me stesso, per esempio, vado in difficoltà. Anche perché non credo di essere sufficientemente interessante».
In che momento della sua vita si sente Pierfrancesco Favino?
favino imita lapo elkann
«In un momento in cui ho il profondo desiderio di lasciare spazio a ciò che non posso controllare. Ogni tanto, anche quando non ero in scena, andavo sul set a vedere lavorare Bellocchio. Lo osservavo innamorarsi di un dettaglio e parlare ad alta voce con la troupe: “Perché il personaggio guarda lì?”, chiedeva. E poi si rispondeva: “Non lo sappiamo”. Ecco, quel “non lo sappiamo” non solo non mi spaventa, ma mi arricchisce. La possibilità che quello sguardo abbia un significato autonomo che non trattengo, che non dipende da me e del quale non sono padrone, è un regalo inestimabile».
favino a che tempo che fa
Ha voglia di fare il regista?
«Non dico di no, ma penso di non sentirmi ancora pronto. Una cosa per volta. Intanto provo a diventare l’attore che vorrei ancor essere».
Quando decise di fare l’attore lei con suo padre ebbe un dialogo brusco.
«Un dialogo tra un signore nato nel 1922, papà, e un ragazzo irruento venuto al mondo 47 anni dopo. Gli dissi: “Voglio fare l’attore” e mio padre rispose: “Solo un coglione può fare una scelta del genere”. Gli uscì un po’ storto quel giudizio e risposi a tono: “Da qualcuno deve aver preso”. Poi però con mio padre ho ritrovato un rapporto, ci siamo guardati negli occhi, mi sono sentito dire: “Ho capito che hai fatto tutto da solo e sono orgoglioso di te”. Non mentiva. Ho scoperto che collezionava i ritagli di giornale con il mio nome e un po’ mi sono commosso. Sa cosa c’è?».
Cosa c’è?
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«Che parlo spesso di mio padre e meno di mia madre. Una donna di 89 anni che ancora guida, di una vitalità e di una forza straordinarie. Mia madre è stata estremamente importante nella mia vita».
Lei si sente importante per le sue figlie?
«Non hanno il mito del padre attore e già questo mi consola. Mi vedono nella mia normalità: a fare la spesa, cucinare, portarle a scuola o a ginnastica artistica (Greta e Lea, 13 e 7 anni, ndr). Poi faccio anche l’attore, ma la nostra vita corre su altri binari. Sanno esattamente chi siamo io e mia moglie Anna e le cose in cui crediamo. L’unico esempio che possiamo dar loro è questo: la normalità e la consapevolezza del privilegio. Mi sento fortunato, ho avuto buoni maestri e faccio un mestiere che mai avrei pensato di poter fare davvero».
È vero che lei è maniacale, a volte persino rompicoglioni nel suo lavoro?
«Non credo di essere un rompicoglioni né di soffrire di maniacalità. Sono riuscito a fare il mestiere che sognavo da bambino, perché dovrei risparmiarmi? Amo ciò che faccio e cerco di farlo bene. Non riuscirei a fare un moschettiere senza conoscere un cavallo o una spada o a interpretare Buscetta o Craxi senza studiarli. Il mio lavoro è cercare di capire il motore e le logiche degli individui, non basta l’imitazione. Non sopporto l’idea che il limite diventi stile e credo che nella preparazione ci sia la risposta alla vacuità. Un paio di chiappe che si agitano in una gif non mi rappresentano. Non mi interessano. Non sono un valore e non incarnano un mondo che mi piace. Forse in questo ho 50 anni e magari sono démodé».
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Qual è il mondo che le piace invece?
«Un mondo di persone che attraverso le loro capacità sono in grado di creare una continuità che si fondi sulla conoscenza di ciò che si fa. Nella mia famiglia l’idea del merito era molto presente e in qualche modo devo averla ereditata. Sento un dovere nei confronti del pubblico e so che se non mi faccio capire dipende dalla qualità del mio lavoro e non dalla capacità uditiva di chi mi ascolta, anche in tempi in cui per farsi ascoltare sembrerebbe bastare anche una voce fioca. Forse basta, ma non sarà mai la mia. Mi rattristerebbe, mi farebbe dormire male».
A chi deve dire grazie?
pierfrancesco favino intervistato
«All’educazione che ho avuto, che mi permette ancora di commuovermi, a chi mi ha voluto e mi vuole ancora bene e alle piccole cose di valore non quantificabile che mi hanno fatto crescere. Potrei metterle tutte in fila, come in un film: i miei amici di Monteverde, le case di via Piccolomini con i prati immensi in cui giocare a calcio fino a sera, la mia moto, forse la prima in assoluto, una Yamaha Rd 350, detta scaramanticamente “la bara volante”, le voci delle madri che affacciate alla finestra, a pranzo o al tramonto, ci ricordavano che era arrivata l’ora di nutrirsi.
Ho sempre avuto un piatto in tavola e mi sono cibato di persone preziose come Graziella, Alessandro o Moira. Gente che è con me da sempre e ha intuito prima di me che avevo un talento. Poi ovviamente dico grazie anche a me stesso. Forse ero un pianoforte a coda, ma decidere se battere quei tasti o quelli di una pianola elettrica, dare ordine al mondo che avevo dentro, è dipeso soprattutto da me».
Definisca un attore.
«Posso impegnarmi, abbandonarmi, dare tutto al mio personaggio ma so che ciò che ho intuito prima di andare in scena non sarà mai uguale a ciò che il pubblico percepisce. Nella magia che ti consente di far diventare il tuo timbro una melodia che il pubblico può amare e apprezzare c’è il destino di un attore».
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Cosa ha capito in questi anni?
«Che esiste una differenza abissale tra talento e genio e che tra una virgola e un silenzio, spesso nascoste, esistono moltissime cose. Io quelle cose, tra una virgola e un silenzio, le sto ancora cercando».
pierfrancesco favino pierfrancesco favino