Alessandro Di Battista per tpi.it
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La guerra italo-turca che permise al Regno d’Italia di conquistare la Tripolitania e gran parte della Cirenaica si è conclusa nel 1912. Sono passati 109 anni. Ed è passato quasi un secolo dalla caduta dell’Impero ottomano, già in crisi da decenni e definitivamente crollato dopo la sconfitta nella Prima guerra mondiale. Eppure oggi un “sultano” moderno si aggira per l’Europa. E, sebbene venga considerato un dittatore, nessuno osa contrastarlo politicamente. Questo perché ha a disposizione un esercito potentissimo, un sistema di intelligence all’avanguardia e soprattutto perché ha entrambe le mani sui rubinetti migratori.
Può aprire la rotta balcanica o quella del Mediterraneo a suo piacimento. Tale potere, come spesso accade, l’ha conquistato più per demeriti altrui che per meriti propri. L’ultima guerra in Libia, quella voluta dal corrotto Sarkozy, dalla democratica Clinton e dal premio Nobel per la Pace Obama, ha consentito a Erdogan di occupare giorno dopo giorno quel vuoto lasciato dalla caduta di Gheddafi.
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La guerra in Siria – ennesimo conflitto armato realizzato per questioni energetiche e geopolitiche e non certo per ragioni umanitarie – ha permesso al presidente turco di rafforzare il suo peso specifico nel Medio Oriente, di aumentare le spese militari e di schiacciare la popolazione curda.
I bonifici arrivati ad Ankara da Bruxelles con l’intento di contenere i flussi migratori verso Bulgaria e Grecia non hanno fatto altro che rafforzare politicamente e finanziariamente Erdogan. Tutto questo è avvenuto grazie ad errori marchiani commessi da politici, alcuni dei quali ancora al potere.
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Tre ministri del governo dell’assembramento – Gelmini, Carfagna e Brunetta – erano ministri dell’ultimo governo Berlusconi che per pavidità avallò la guerra in Libia, ovvero la sconfitta più cocente per l’Italia dai tempi della Seconda guerra mondiale. Draghi, evidentemente, ha deciso di premiarli per tali successi e chi, un tempo, si indignava per quell’intervento scellerato ha accettato di governare con loro.
Ad ogni modo di tutto questo, ovvero di Politica con la P maiuscola, non si parla nell’Italia di oggi anestetizzata dalla pax draghiana. Draghi ha menzionato una volta Erdogan, l’ha fatto per definirlo “un dittatore di cui si ha bisogno”. Se Berlusconi avesse pronunciato le stesse parole sarebbe stato crocifisso in sala mensa.
ALESSANDRO DI BATTISTA
Draghi, ancora una volta, è stato protetto in quanto protettore degli interessi di Confindustria, delle banche e delle famiglie più potenti d’Italia, a cominciare dai Benetton.
Che con il governo dei “migliori” ci sarebbe stata la restaurazione lo sapevano tutti, a parte i dirigenti del Movimento 5 Stelle suggestionati dalla transizione ecologica in arrivo insieme a Godot o dal puerile convincimento di controllare un governo nel quale sono azionisti di minoranza nonostante il trionfo alle ultime elezioni politiche.
Tuttavia è bene mettere in fila una serie di fatti che dimostrano quanto il governo Draghi abbia assassinato la politica riconsegnando, di fatto, il potere a chi, dopo il 2018, ha temuto di perderlo. Confindustria gongola. Si permette di denigrare il ministro del Lavoro Orlando senza che il presidente che l’ha scelto spenda una parola per difenderlo.
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Confindustria incide sulle scelte del governo come non mai. Incide sul blocco dei licenziamenti, incide sulle nomine, incide sul Decreto Semplificazioni. Chissà, forse incide persino sulla sedicente transizione ecologica. Nelle ultime settimane si è tornato a parlare di trivelle, di inceneritori, di ponte sullo Stretto. Non è restaurazione tutto questo?
La lotta ambientale, tema al quale molti politici bolliti si aggrappano disperatamente per restare a galla, rischia di essere assassinata, se molte indiscrezioni sul Decreto Semplificazioni dovessero essere confermate.
L’ambientalismo di sistema è restaurazione, la morte di un sano dibattito pubblico sul governo è restaurazione. L’assenza di opposizione (salvo rare eccezioni e non mi riferisco alla Meloni) è restaurazione. Il diritto all’oblio del quale gode in Italia solo Mario Draghi, il cui passato non va ricordato, è pura restaurazione. La scomparsa della questione morale – che, seppur con tonalità diverse, era presente durante la stagione del Conte I e quella del Conte II – è restaurazione.
È passato un mese dallo scoop di La Repubblica sul bulimico utilizzo dei voli di Stato da parte della presidente Casellati. Cosa è accaduto? Nulla, a parte l’ordine partito dal gotha di Mediaset di cancellare dai siti del gruppo un servizio de Le Iene al riguardo.
Durigon è ancora al suo posto nonostante le oscenità da lui pronunciate e registrate dalle telecamere nascoste di Fanpage. La mozione di censura presentata dal Movimento 5 Stelle – la quale, nel caso fosse approvata, costringerebbe Draghi e il ministro Franco a sbarazzarsi di Durigon – giace in qualche cassetto della Camera dei Deputati.
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Non vorrei che per timore di “rappresaglie” leghiste nei confronti della sottosegretaria Macina – rea di avere opinioni, non certo di aver delegittimato la Guardia di Finanza o di aver promesso nomine come Durigon – si sia deciso di decelerare sul tema. Ad ogni modo, se il caso Durigon fosse scoppiato durante i due governi precedenti di questa legislatura, il sottosegretario leghista sarebbe andato a casa.
Poi c’è lo stomachevole comportamento di gran parte dei media mainstream al cospetto del nuovo santo a decretare la nascita ufficiale dell’epoca della restaurazione. Non ho mai assistito, neppure nei primi mesi di sbornia renziana, ad una narrazione così celebrativa nei confronti di un politico che, tra l’altro, non ha mai affrontato un’elezione popolare.
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Ricordo una giornalista del Sole 24Ore (proprietà di Confindustria) alzare le braccia al cielo come se stesse recitando un padre nostro e ringraziare Mario Draghi per la sola sua salvifica presenza. Il tutto durante una conferenza stampa a Palazzo Chigi. Ma, più che le lodi, è l’assenza di domande a scandalizzare.
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Pochi giorni fa Draghi ha umiliato Letta bocciando sonoramente una sua timida (e condivisibile) proposta di redistribuzione mediante aumento delle tasse di successione sui grandissimi patrimoni, sostenendo – parole del premier – che “questo non è il momento di prendere i soldi dai cittadini ma di darli”.
Dare soldi al posto di chiederli. Come non essere d’accordo? Ma cosa significa esattamente? Intendeva dire che arriveranno nuovi scostamenti di bilancio per reperire soldi freschi con i quali ristorare famiglie e imprese o quelle di Draghi sono solo parole vuote? Possibile che nessun giornalista abbia avuto il coraggio di domandarglielo?
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La restaurazione lotta in mezzo a noi e trova terreno fertile nella sacrosanta voglia di normalità da parte del popolo italiano. Un popolo che, distratto dalla fine imminente del coprifuoco, potrebbe non accorgersi del lockdown politico ed economico che continua – e temo continuerà – fino a che i gruppi di potere che hanno brigato per sostituire Conte con Draghi continueranno a dettar legge.
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Prendiamo le nomine. A capo di Cassa Depositi e Prestiti, l’istituzione finanziaria sotto il controllo del Ministero dell’Economia (quello dove lavora Durigon, per intenderci), è stato appena nominato Dario Scannapieco, manager dall’ottimo curriculum che, nel 1997, venne chiamato da Draghi al dipartimento del Tesoro.
Erano gli anni in cui vennero privatizzate le autostrade, le quali – costruite con le tasse degli italiani – andarono ad arricchire la famiglia Benetton, la stessa famiglia che sta trattando la cessione delle concessioni proprio con Cassa Depositi e Prestiti. C’è qualcuno che ancora crede che la revoca sia possibile? La Strage di Genova, politicamente, resta impunita. Occorrerà, ancora una volta, aspettare la magistratura. Anche questa è restaurazione.
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La politica delegittima ogni giorno la magistratura (che di questi tempi si delegittima da sola), ma poi continua a sostenere che vanno attese le sentenze definitive per far pulizia all’interno dei partiti. Il primato della politica, dunque, è sempre più in agonia. Non bastassero i tecnici pronti a gestire i miliardi del Recovery Fund senza dover render conto agli elettori che non li hanno eletti.
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La restaurazione striscia tra le grida di giubilo di Confindustria e tra i silenzi sulle notizie imbarazzanti per gli aedi di sistema. La restaurazione c’è quando Draghi viene celebrato e persino quando viene silenziato.
Alcuni giorni fa, al termine del Consiglio europeo, Mario Draghi ha criticato l’Europa, rea di aver lasciato, ancora una volta, l’Italia da sola ad affrontare la crisi migratoria. Come ricorda Il Fatto Quotidiano, sui principali quotidiani pro-Draghi, da La Repubblica al Corriere della Sera, non è stato dato molto risalto alla presa di posizione dell’apostolo. Eppure in passato hanno scritto persino della sua dieta personale.
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Il punto è che Draghi che se la prende con l’Europa per la sua costante diserzione davanti al dramma dei migranti è una notizia che mette in crisi i cantori dell’infallibilità draghiana e di quella europea. Un cortocircuito che chi da mesi narra i prodigi dell’altissimo – l’unico che sa farsi rispettare in UE e, contestualmente, glorifica i cambiamenti dell’Europa – davvero non potrebbe permettersi. Non sia mai che la restaurazione trovasse l’ostacolo di una pubblica opinione finalmente consapevole.
I GRILLINI NEO-GARANTISTI
Domenico Di SAnzo per Il Giornale
DI BATTISTA
C' è chi fa rispondere la moglie al telefono per dire che no, non vuole commentare. Chi approfitta del sabato per una gita fuori porta e chi parla solo sotto la promessa dell' anonimato.
La svolta garantista di Luigi Di Maio è coraggiosa perché mette in imbarazzo il suo stesso partito. E così, il giorno dopo la lettera al Foglio, nessuno sa cosa fare. Il Movimento neo-garantista non esiste, se non nelle parole del ministro degli Esteri. Infatti anche quelli che sono d' accordo con lui, che sono la maggioranza, non vogliono uscire dal silenzio.
Gli eredi del Vaffa di Beppe Grillo sono spaventati dai Vaffa che potrebbero ricevere dagli attivisti. «Hanno paura di essere chiamati traditori sul territorio», dicono dai Cinque Stelle. In un momento di massima incertezza per quanto riguarda terzo mandato e ricandidature, con i sondaggi in picchiata, temono di giocarsi con il garantismo i voti nei loro collegi di provenienza.
GRILLO DI BATTISTA
Dove i militanti, da anni, sono abituati ad azzannare gli avversari politici di turno colpiti anche per un semplice avviso di garanzia. Sono timidi soprattutto i parlamentari al primo mandato. Proprio quelli che temono di più per le loro poltrone. «Tanto Di Maio comunque un futuro ce l' avrà lo stesso», è il ragionamento di chi pensa che il ministro degli Esteri stia giocando una sua partita personale, in solitaria. In questo schema inedito, le frasi sul garantismo servirebbero ad accreditarsi in altri mondi, distanti dall' universo grillino. Scenari suggestivi ma, al momento, lontani dalla realtà. Le dichiarazioni di Di Maio riposizionano il M5s, non vogliono superarlo.
Infatti, nonostante i silenzi, nella truppa è tanta la voglia di voltare pagina. «Siamo stufi delle manette, dobbiamo fare politica», dice un parlamentare vicino all' ex capo politico. I neo-garantisti sono soprattutto alla Camera.
A Montecitorio, spiegano, la svolta «è stata accolta come una boccata d' ossigeno». Gli entusiasti sono più di una cinquantina tra Camera e Senato, ma di forcaioli con la bava alla bocca se ne trovano pochi. Gli irriducibili delle manette resistono a Palazzo Madama.
Basta osservare la comunicazione. I contenuti web più trash provengono dallo staff dei senatori, ad esempio sui voli di stato della presidente del Senato Elisabetta Casellati. Tra i comunicatori, Ilaria Loquenzi è considerata ancora fedele alla vecchia scuola.
LA LETTERA DI LUIGI DI MAIO AL FOGLIO
Il capogruppo Ettore Licheri, avvocato e collaboratore del pool dell' inchiesta Calciopoli nel 2006, è visto come un campione di giustizialismo. La vicepresidente del Senato Paola Taverna è una dei pochi big a non aver detto la sua sul caso Uggetti-Di Maio. Tace Roberto Fico, che però se ne lava le mani tirando in ballo il fatto di essere presidente della Camera. Non parla Beppe Grillo, sprofondato nel mutismo dopo il video umorale in cui aveva difeso il figlio Ciro, accusato di stupro dalla procura di Tempio Pausania.
E c' è Giuseppe Conte, che si muove come un pugile suonato. La mossa delle scuse a Uggetti lo ha lasciato di sasso. Bruciato sul tempo da Di Maio, non ha potuto fare altro che seguirlo a ruota. L' ex premier ha perso l' occasione per intestarsi la paternità del cambio di passo, ma allo stesso tempo non ha il physique du role per tenere i Cinque Stelle nella ridotta giustizialista. Per non farsi mancare nulla è tallonato a sinistra dal segretario dem Enrico Letta. Il leader del Pd continua a corteggiare l' elettorato giovanile, tradizionale serbatoio grillino, con la dote ai diciottenni e la tassa di successione.
di battista di maio
Letta è stato freddo anche sulla svolta di Di Maio. «Né giustizialismo, né impunitismo», ha detto. Per non parlare dello stallo con Davide Casaleggio, da cui non si vede una via d' uscita che non sia un accordo.