Raffaele Panizza per “Vanity Fair”
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I figli della guerra s’incamminano in un percorso d’espiazione che neppure la religione più sadica sarebbe riuscita a disegnare: prima il paradiso di una vita normale, come quella che si lasciano alle spalle 10 milioni di ucraini in questi ingiustificabili giorni. Poi l’inferno d’ossa e palazzi tramutati in tizzoni da camino. E infine il limbo a orologeria dei campi profughi, dove il tic-toc della vita interiore, e quello della vita fuori, vanno eternamente a velocità disconnesse.
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Il ritorno nelle grazie di Dio per gran parte di loro non è contemplato: a casa non si va, perché c’è ancora la guerra oppure perché casa non c’è più. Davanti non sembra esistere niente, e restare fa galleggiare nella malinconia ma quantomeno garantisce l’incolumità, i soldi per le esigenze quotidiane, l’istruzione dei figli.
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«La nostra vita è una strada verso il nulla», dice Ammar, 19 anni, all’ultimo anno di superiori nel campo profughi giordano di Zaatari, uno dei più grandi al mondo, che da dieci anni culla in una sospensione vitale più di 80 mila rifugiati (la metà son bambini) scappati da un’altra guerra di Putin:quella in Siria. Bisogna venire qui, a venti chilometri dal confine siriano, in questa colonia d’esseri umani costruita su Marte, per capire cosa succede agli sfollati quando la mobilitazione internazionale s’intiepidisce ma la vita invece avvampa e c’è da costruire quotidianità e futuro.
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E per pesare il lavoro delle organizzazioni umanitarie che realizzano progetti su progetti educando, sanificando, distribuendo denari da spendere grazie a un sofisticato sistema di riconoscimento oculare attivato nei mercatini convenzionati. Che fanno trillare le chitarre e insegnano alle bambine a darsi un valore anche se le tradizioni più oscurantiste impediscono loro di usare la bicicletta per raggiungere la scuola.
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Venire qui per entrare in una clinica pediatrica e scoprire che nel campo nascono diciannove bambini al giorno, con un tasso di mortalità vicino allo zero, fiorellini che pesano quattro chili perché nutrire bene una madre significa dar forza alle vene dei neonati. Venir qui per capire come la spinta verso il domani, nonostante tutto, non si arresti mai.
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«Purtroppo, in proporzione alle necessità, la quantità di donazioni sta diminuendo», confida un funzionario dell'Alto commissariato Onu per i Rifugiati, «all’inizio, chi fugge dalla guerra pensa solo alla protezione della famiglia e alla sopravvivenza. Poi, man mano, cerca di costruirsi un’esistenza vera, e questo fa aumentare i costi. Alcune Ong, qui a Zaatari, hanno dovuto chiudere le cliniche».
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Dopo due anni di Covid che hanno confinato le persone nei loro 26 mila prefabbricati sotto il sole, sferzati dal vento, con la polvere che si solleva e crea disturbi polmonari a molti bambini, siamo i primi a ritornare qui Al seguito di una delegazione di Unicef Italia che in favore della sua omologa giordana raccoglie fondi per coordinare e mettere in opera una moltitudine d’interventi educativi, ricreativi, di avviamento al lavoro e sanitari.
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E insieme ai rappresentanti di LuisaViaRoma, retailer internazionale di moda online e boutique storica di Firenze che dal 2018 a oggi ha raccolto milioni di euro organizzando tra Saint Barth e Capri (il prossimo evento sull’isola italiana è previsto per il 30 luglio alla Certosa di San Giacomo) una serie di gala e aste benefiche considerate tra gli eventi di fundraising più incisivi al mondo: «LuisaViaRoma ci ha dato libertà massima di decidere come e dove investire il denaro», dice Paolo Rozera, direttore di Unicef Italia, «e questo, per noi, rappresenta un valore aggiunto incomparabile».
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Zaatari, per esempio, in dieci anni s’è trasformato in una specie di città, da cui si entra e si esce grazie ai 2 mila permessi che le autorità del campo concedono ogni giorno per visitare i parenti negli altri campi profughi o negli accampamenti informali vicino alle serre di fragole e pomodori. Per respirare.
Approvvigionarsi del necessario. Far finta di vivere davvero. Ci sono i negozietti di qatayef, i ravioli dolci che si preparano durante il ramadan. C’è il venditore di lavatrici e frigoriferi. Il fruttivendolo che fa succhi freschi e vende le mele a mezzo dinaro al chilo (quasi un euro, non poco).
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Il commerciante di mobili che trova l’usato sul marketplace di Facebook e lo rivernicia nel laboratorio sugli Champs-Élysées, com’è soprannominata la via commerciale lunga un chilometro formatasi spontaneamente negli anni, con le boutique che noleggiano abiti bianchi per le spose e rosa e azzurri per l’addio al nubilato, col salone di bellezza annesso dove la musica siriana rimbomba a manetta, le anziane tengono a bada i bimbi, le spose si truccano per presentarsi stupende al matrimonio probabilmente con uno sconosciuto, nel container adibito a Corte della sharia.
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E poi tantissimi barbieri, perché tutti i ragazzi hanno ciabatte slabbrate ma chiome perfette e luccicanti, mentre camminano nella polvere lungo le strade ortogonali del campo: «Mi mostrano sul cellulare il taglio che desiderano e io lo rifaccio uguale», dice Nour Aideen, 24 anni, che ha imparato il mestiere grazie ai corsi del Vocational Training Center, «tutti vogliono somigliare all’attore Taim Hassan». Poco più di un euro per il taglio completo. Massimo tre per i trattamenti con l’olio e la cheratina.
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Ma soprattutto ci sono 32 scuole, 58 centri ricreativi tra cui 11 Makani dedicati a 11 mila bambini e adolescenti, i centri educativi di Unicef dove i ragazzini studiano, imparano a difendersi dal bullismo e a dire no al lavoro minorile, dove le bambine imparano il taekwondo e si sfidano a calcio sui campetti di erba sintetica, correndo come delle matte con l’hijab che svolazza al vento, sotto le scritte «Sport is life» e «Makani is happiness».
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«Giocano soltanto qui, perché in strada si vergognano dei maschi», dice Nisreen Alawad, docente siriana di lingua inglese che dirige uno dei nove Makani di Azraq, un altro campo profughi gestito dall’Onu e dalle autorità giordane. Ha visto suo figlio saltare in aria nella scuola di Daraa dove insegnava prima di fuggire, e suo marito perdere una gamba.
Fa parte delle migliaia di siriani che lavorano grazie al servizio Onu e Unicef chiamato Incentive-based volunteering, che permette di arrotondare i 32 dollari al mese che le autorità danno ai rifugiati per le necessità basilari. Ricordando suo figlio, un lampo di dolore antico e inconsolabile le annienta lo sguardo per un istante, ma poi si scuote: «Questi ragazzini hanno bisogno di noi. Quelli nati qui non sanno neppure cosa sia un albero o un fiore, li hanno visti solo in tv».
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Oltre a scavare a trecento metri sottoterra i pozzi che portano acqua potabile a tutti gli abitanti dei campi, Unicef ha costruito Makani dappertutto, nei quartieri poveri di Amman così come nelle tendopoli informali nate vicino ai campi coltivati, dove si lavora per sei euro al giorno in cambio d’elettricità e uno spiazzo dove costruire la baracca. Nel piccolo centro ricreativo della baraccopoli di Husban insegna Trad Salih, che ha 28 anni e ci accoglie piegato sui libri, nella sua tenda dalle pareti ricoperte di stoffe damascate: «Sono scappato dieci anni fa», racconta, «prima se ne sono andati i miei genitori, che m’hanno lasciato a casa per terminare la scuola. Poi, dopo settimane a vagare da un villaggio all’altro, ho superato il confine anch’io».
PROFUGHI SIRIANI E CLOWN
Prima di partire, ricorda, aveva ricevuto la lettera d’ammissione all’università di Damasco: «Quello resta il mio grande sogno spezzato», dice. Ora però ce n’è un altro, da accarezzare qui: grazie a una borsa di studio concessa dall’università di Cambridge, Trad s’è iscritto alla facoltà di Farmacia di Amman, dove spera di laurearsi tra quattro anni. In un Paese come la Giordania, però, che permette ai rifugiati siriani di svolgere solo lavori di manovalanza, in un sistema crudele di speranze mute e di limbi concentrici.
RAGAZZA SIRIANA IN UN RIFUGIO PER PROFUGHI
A poche centinaia di metri c’è la casa di Abu Adnan, uno dei beneficiari del programma Unicef My needs, 35 dollari per assicurarsi che ogni famiglia possa acquistare il materiale scolastico. La maggiore dei suoi otto figli, a sedici anni, è già andata in sposa. Per gli altri, domattina, suonerà la campanella: «Le si sono proposti in tanti, è successo e basta», si giustifica il papà. Che poi alza la testa, fa un gesto preciso con la mano, e dice: «Non riaccadrà più: per le mie figlie, ora, voglio un destino diverso».