Paolo Tomaselli per il “Corriere della Sera”
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L'ultima volta che l'Inghilterra aveva perso in casa con 4 gol di scarto fu nel 1928, contro la Scozia (5-1). Poi a Wembley nel 1953 arrivò la Grande Ungheria a dare una lezione ai maestri anglosassoni con uno storico 6-3. Tre giorni fa, mentre l'Italia veniva presa a pallonate in Germania, la nazionale ungherese allenata da Marco Rossi ha vinto 4-0 a Wolverhampton, pochi giorni dopo aver battuto gli inglesi a Budapest. Ed è rimasta in testa nel girone di Nations.
Rossi, suo nonno quando la accompagnava agli allenamenti con il Torino le parlava di Valentino Mazzola e della squadra di Puskas. Adesso anche la sua squadra ha lasciato il segno.
«Sì, ovviamente è un'altra cosa rispetto a quella squadra leggendaria, ma questa vittoria rimarrà nella storia, anche perché nelle ultime tre sfide con loro abbiamo anche pareggiato a Wembley».
Questa Inghilterra soffre gli allenatori italiani?
«L'abbiamo preparata come le altre partite, però in effetti hanno sofferto il nostro dispositivo tattico: squadra corta, che difende bene».
Chissà a Budapest.
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«C'è stata grandissima euforia, superiore forse a quella dell'Europeo dove siamo arrivati a 5 minuti dalla qualificazione nel girone di Germania, Portogallo e Francia. L'Ungheria vive di calcio, ma in larga parte nessuno ha vissuto i fasti che furono. Per questo c'è grande orgoglio».
Il primo ministro Orbàn era presente a Wolverhampton dopo aver visto la partita contro l'Italia a Cesena?
«Sì, è sceso negli spogliatoi subito dopo la partita, per fare i complimenti a tutti».
Ormai lei con la squadra comunica in ungherese?
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«Qualche parola la uso, ma ho ragazzi svegli, che parlano tutti l'inglese molto bene».
Le imprecazioni in italiano le capiscono?
«Al volo. Prima ancora che le abbia terminate...».
All'ultima giornata della Nations, il 26 settembre, potrebbe decidere le sorti dell'Italia, che rischia la B.
«Anche noi, che siamo in testa, rischiamo ancora. Per ora abbiamo giocato per gli azzurri, perché abbiamo preso punti a tutte le altre due».
Come è andata con l'inno italiano da avversario?
«È stato emozionante: ho cantato i due inni, anche se qualcuno ha detto che quello ungherese lo canto solo perché mi pagano. Ma mi pagano per allenare, non per cantare l'inno: lo faccio per rispetto del mio Paese d'adozione».
Comunque cantare in ungherese è un lavoro a sé.
«In effetti non è semplice».
Come l'ha vista l'Italia?
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«Ci ha messo più in difficoltà di Inghilterra e Germania e abbiamo perso meritatamente. Penso che la strada del rinnovamento sia stata intrapresa e se vuoi rinnovare devi puntare sui giovani, perché sono loro il futuro. A settembre poi torneranno a disposizione altri grandi giocatori».
Il quadro com' è?
«Meno catastrofico di quello che sento dire. L'Italia resta temibilissima anche per Germania e Inghilterra, non solo per noi. Capisco lo smarrimento per l'eliminazione dal Mondiale, ma c'è troppo disfattismo».
Nel 2012 stava per andare a lavorare con suo fratello commercialista dopo tre anni senza panchina. In Ungheria ha vinto il campionato con la mitica Honved e ha riportato la Nazionale a buoni livelli. La morale qual è?
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«Che la mia carriera, iniziata nel 2004 a Lumezzane e mai andata oltre la C, è stata a due velocità. In Italia con le marce ridotte. Poi c'è stata una sterzata, con più fortuna».
Troppo traffico in Italia o troppe corsie preferenziali?
«C'è molto traffico, ci sono tanti allenatori bravissimi e quelli che esordiscono in A, più o meno giovani, spesso dimostrano di meritarsela. Io anche quando ho fatto risultati importanti non ho saputo capitalizzarli: nel 2005 in una pagina della Gazzetta sugli emergenti c'era la mia foto grande e quelle di Sarri e Ballardini più in piccolo. Con loro ci hanno preso, con me un po' meno».
Si dà delle responsabilità?
«Sono uno che dice ciò che pensa. Ma soprattutto non so coltivare le relazioni, così è difficile che qualcuno ti offra la possibilità di allenare».
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Chiamate di lavoro dall'Italia ne ha ricevute?
«Zero. Tantissimi complimenti, ma nessuna chiamata da dirigenti o presidenti».
È normale?
«Credo di sì: non penso di essere un profilo appetibile per il calcio italiano. Lo dico con serenità e con la consapevolezza che per me è stato obbligatorio andare all'estero.
Ma mi sono ritagliato uno spazio importante e dignitoso che mi soddisfa. Non ho acredine o un senso di rivalsa»
I giocatori ungheresi le chiedono informazioni sulla serie A o guardano altrove?
«Tutti ora vogliono andare in Inghilterra, per ragioni economiche ma anche per l'atmosfera che c'è negli stadi. Quel che è davvero grave, è il fatto che l'Italia è molto indietro nelle strutture anche rispetto all'Ungheria. Persino in B da noi quasi tutti gli impianti sono nuovi».
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Suo figlio pallanotista, che voleva fare il calciatore ma fu sconsigliato da lei, come procede?
«Non farà i Mondiali, ma avrà altri appuntamenti con il Settebello, con il quale ha già esordito. Era il suo sogno».
Meglio buoni pallanotisti che calciatori mediocri?
«Meglio un genitore che non pensi che suo figlio sia per forza il migliore. I ragazzi vanno educati, non solo coccolati. L'obiettività sulle potenzialità dei propri figli dovrebbero avercela tutti. Invece è di pochi».
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