Marco Giusti per Dagospia
margaret qualley sanctuary
Secondo giorno alla Festa del Cinema di Roma. Si parla di sesso. Buon segno. Schiavi e dominatrici. Ma scordatevi le fruste, i lattici, le scarpe coi tacchi, lo schiavo che lecca la suola della scarpa di lei con la lingua. Nulla di tutto questo.
In “Sanctuary”, diretto con un bel piglio da Zachary Wigon al suo secondo film, benissimo scritto da Micah Bloomberg, lo schiavo, Hal Porterfield, interpretato da Christopher Abbott e la dominatrice Rebecca, interpretata dalla Margaret Qualley di “Maid”, il rapporto malato tra i due è tutto mentale, psicologico. “Non tocco i miei clienti”, dice Rebecca. “Vuoi venire?” – “Sì” – “Vuoi masturbarti ma se vieni me la paghi”.
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Poi lo fa strisciare sul pavimento del cesso. Ma dopo 22 minuti iniziali capiamo che lei, Rebecca, sta recitando il copione che lui, Hal, ha scritto per lei. E i suoi problemi sono soprattutto di non accettazione di sé. E è solo l’inizio di una serie di colpi di scena e di cambiamenti di direzione. Tutto il film, chiuso tra i due attori, è costruito sul loro rapporto malato, scambio continuo di potere e di controllo, in un hotel di lusso, dove si incontrano da tempo, giocando dei ruoli diversi.
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Ma il gioco, le dice Hal dovrà finire, perché il padre è morto e lui sta ereditando una fortuna, 185 milioni di dollari. Ovviamente Rebecca non ci starà a uscire di scena. Film curioso, probabilmente nato e girato in pandemia, come molti altri dalla stessa struttura teatrale, ha dalla sua una fotografia innovativa, di Ludovica Isidori, e una grande prova dei suoi due protagonisti. Margaret Qualley, soprattutto, è fenomenale a costruire un personaggio che gioca sempre su più livelli.
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