Gian Antonio Stella per il "Corriere della Sera"
Il sito archeologico di Eraclea Minoa
Grazie, tombaroli! Pare impossibile ma è solo a causa di un'indagine sulla presenza, troppo tollerata, di scavatori fuorilegge tra le rovine lasciate a sé stesse che la magistratura ha infine sequestrato l'area archeologica di Eraclea Minoa. Dove il demenziale parapioggia spaziale dello stupendo Teatro greco costruito nel IV secolo a.C. era stato lasciato per anni e anni in uno stato di degrado tale da mettere a rischio l'incolumità stessa di (eventuali) visitatori.
Così scoraggiati ad avventurarsi sul posto, del resto, da far scivolare il sito al trentaseiesimo posto della classifica 2019 dei beni culturali più frequentati in Sicilia. Con una media di 38 ingressi al giorno e un incasso pro capite di 2,77 euro. Manco il costo di una bibita. Evviva il procuratore Luigi Patronaggio, evviva i Vigili del fuoco, evviva i carabinieri del Comando Tutela Patrimonio Culturale.
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Erano anni, infatti, che quanti hanno negli occhi quel tesoro archeologico e tutto il meraviglioso teatro costruito, come a Siracusa e ad Atene, con la cavea spalancata sul mare, tra Sciacca e Porto Empedocle, aspettavano che fosse posto fine allo scempio. L'ultimo di una gestione sventurata che ha visto, dopo la scoperta e lo scavo del teatro a partire dal 1950, una serie di lavori di restauro e manomissioni che, per usare le parole di Bruno Zanardi, lo storico dell'arte e restauratore che intervenne ad esempio sulla Colonna Traiana e l'Ara Pacis, non fermarono o perfino aggravarono la «rapidissima decadenza» della preziosa struttura «arrivata a noi ancora leggibile ma andata rapidissimamente distruggendosi dal 1955 con il primo restauro e peggiorando enormemente con il secondo».
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Il guaio è, come già il Corriere raccontò anni fa, che quel teatro è delicato almeno quanto è bello. Non è infatti di marmo, né di pietra dura. I gradoni dei nove settori giunti fino a noi sono infatti in conci di «marna arenacea». La stessa della candida e strepitosa Scala dei Turchi di Realmonte. E la marna, insegna la Treccani, è una roccia argillosa che può essere tenera (come in questo caso) e viene usata per la fabbricazione del cemento e della calce idraulica.
Ma, come spiegò la soprintendente di Selinunte Caterina Greco, «sotto il vento si sfarina e quando piove si "impacca" come se fosse gesso». Se ne accorsero subito, gli archeologi, dopo aver riportato alla luce il teatro fino ad allora sepolto dai secoli. Mese dopo mese, settimana dopo settimana, quella meraviglia architettonica perdeva la sua fisionomia. Che fare, con i mezzi di settant'anni fa, prima che la scienza e lo studio di nuovi materiali potessero fornire risposte all'altezza del problema?
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Lo stesso Istituto centrale del restauro scelse, come prima risposta, di dare «una spennellata di resina speciale per rendere i gradoni impermeabili». Macché: un disastro. Peggiore ancora, però, come avrebbe appunto spiegato Zanardi, fu l'intervento dell'architetto viterbese Franco Minissi. Il quale nel 1963, come scrisse lui stesso, scelse di coprire «integralmente la cavea con una sorta di vetrina incolore e trasparente in loco». Affermò dunque che «aveva già sperimentato l'uso del plexiglass su monumenti archeologici» e che «a Eraclea il suo obiettivo di rappresentazione del modello originario si espletò nella maniera più compiuta» e che «il disegno delle sagome raggiunse qui la massima precisione» e che la ricostruzione riuscì «perfettamente incolore e trasparente».
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E giù elogi alla «perfetta tenuta delle saldature delle lastre» e «all'isolamento termico e alla areazione della camera d'aria risultante tra le superfici del monumento e la copertura in perspex» e «ai sistemi per evitare ogni infiltrazione di acqua e di vento»... Che fosse in buona fede e sperasse davvero di fermare il degrado dei gradini di marna non osiamo dubitare. Il risultato, però, fu disastroso. Perché l'umidità degli inverni e il sole a picco dell'estate siciliana che Gesualdo Bufalino definiva «furibondo», fecero letteralmente esplodere tra la marna e i gradini di perspex una vegetazione mostruosa.
Al punto che quando trent'anni dopo quelle coperture plastiche trasparenti, diventate di colore giallastro, furono finalmente rimosse e le piante cresciute conficcandosi in ogni minima fessura della marna furono strappate via, gli scalini apparvero in condizioni pietose. Discussero per anni, gli studiosi, sulle soluzioni possibili. Portarono relazioni e ipotesi nei convegni internazionali. Non ne vennero a capo...
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Finché, nel '99, decisero di proteggere dalla pioggia e dal sole il malridotto teatro con una struttura di tubi metallici e pannelli di lamiera zincata, «genialata» di qualche vanesio architetto che sembrava calata direttamente da un'astronave spaziale ma in realtà si reggeva su pilastri conficcati direttamente in ciò che restava della marna già troppo bucherellata dai trapani a percussione. Detto fatto, non ci pensarono più. Quando pubblicammo sul Corriere le foto di com'era in quel momento, nel 2014, quella specie di parapioggia aerospaziale era ridotta da fare schifo.
Pannelli strappati via dalle intemperie e buttati lì da una parte tra i rifiuti, scheletri metallici che qua e là perdevano pezzi che sbattevano sotto il vento, il teatro ormai una solida poltiglia. Uno stupro. La prova oscena del disinteresse dello Stato per un tesoro di quasi due millenni e mezzo fa del quale, nel 2007, aveva osato addirittura vantarsi con un francobollo postale che ritraeva il teatro greco col colore giallastro e i gradini coperti dal plexiglass.
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Una denuncia assai poco ascoltata... Ribadita ieri, però, dal sequestro preventivo d'urgenza firmato dal procuratore Patronaggio. Dove si legge che, perizie alla mano, «si ritiene che sussistano situazioni di pericolo per la pubblica incolumità in presenza di vento. E quindi, concludendo, si ritiene che l'attuale situazione in cui si trova la copertura del teatro greco di Eraclea Minoa costituisca un pericolo per la pubblica incolumità».
Conclusione del magistrato: «Ricorre l'urgente necessità di sottrarre la libera disponibilità del bene ai titolari del parco archeologico di Agrigento che non si sono curati di metterlo in sicurezza». Ancora: «L'intero sito archeologico versa in uno stato di semiabbandono», è «privo di idonea strumentazione di protezione dai furti dei reperti archeologici» e presenta infine «una crescita incontrollata di vegetazione e percorsi non curati e insicuri»... Sarebbe questo il rispetto del nostro patrimonio?