Estratto dell'articolo di Gianluca Mercuri per www.corriere.it
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[…] rischiamo che le nostre serate dei prossimi anni siano più vuote, senza serie tv israeliane?
La questione — anche questa — è posta dalla guerra. Le stragi quotidiane a Gaza hanno riflessi pesanti sull’immagine di un Paese che in questi anni si era illuso di una sopraggiunta normalità grazie ai suoi successi economici e tecnologici — la startup nation — e agli stilemi televisivi imposti felicemente a tutto il pianeta. […]
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Fauda, il western all’israeliana (lo schema di base è cow boys contro indiani, ma molto più raffinato) che tutto condensa e tutto esalta se si parla della capacità dei narratori televisivi israeliani di ipnotizzare qualsiasi tipo di pubblico, compreso quello arabo. Come Homeland, non a caso, la serie che racconta imprese e tragedie dell’unità d’élite infiltrata nei Territori palestinesi ha anticipato l’evoluzione parossistica che viviamo, a cominciare dall’appropriazione da parte di Hamas delle modalità tipiche dell’Isis che il 7 ottobre ha gettato Israele (e il mondo) in un nuovo precipizio. […]
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Il problema è che il trend sta girando e sembra il riflesso di un trend più grande. «Rischiamo di finire come la Russia», come un Paese che gran parte della comunità internazionale tratta come un paria: e se a dirlo al quotidiano Haaretz è un operatore televisivo, con riferimento al suo settore e non solo, e non un analista, un militare o un leader politico, sotto c’è qualcosa di preoccupante. Prendiamo Tehran: la strage della settimana scorsa in Iran alla commemorazione del generale Soleimani sembra una classica scena della serie che racconta le vicende di una agente israeliana infiltrata nel Paese degli ayatollah.
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Apple Tv ha comprato i diritti per 20 milioni di dollari e ha trasmesso le prime due stagioni. Quando è scoppiato il conflitto con Hamas, la produzione stava finendo di girare la terza stagione — che in teoria Apple dovrebbe trasmettere quest’anno — e stava impostando il lavoro della quarta, le cui riprese erano previste sempre quest’anno. Ma dopo il 7 ottobre, racconta la produttrice Shula Spiegel, «Apple ci ha chiesto di interrompere la stesura della sceneggiatura, perché la nuova realtà stava causando incertezza sui contenuti. Solo un mese dopo ci hanno detto che potevamo continuare a scrivere». Ora che di mesi ne sono passati tre, Spiegel descrive un clima di incertezza che preoccupa tutti i suoi colleghi: «Ogni emittente si sta chiedendo: “Che cosa sono disposto a prendere da Israele e in quale forma dovrebbe essere raccontato?”. In questo momento, hanno più domande che risposte».
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Il segnale più allarmante arriva da Netflix. Il gigante dello streaming, racconta il giornale, «ha sospeso la trasmissione di diverse serie israeliane», dal dramma d’azione Border Patrol, acquisito a settembre dopo la prima sul canale televisivo via cavo Hot, alla commedia Through Fire and Water, che doveva debuttare su Netflix a novembre ma è stata rinviata. Racconta la coproduttrice Danna Stern: «I trailer dovevano andare in onda il 10 ottobre.
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Due giorni prima hanno detto che dovevano verificare se era il caso di rimandare la messa in onda, perché si trattava di una commedia e noi eravamo nel bel mezzo di una tragedia e di una guerra». Rinviato anche il thriller Trust No One , il cui protagonista Yehuda Levy interpreta il capo dello Shin Bet: doveva andare in onda a novembre sull’israeliano Keshet (Canale 12) e subito dopo la sua conclusione su Netflix, che lo ha comprato in settembre. Tutto bloccato. Sono solo alcuni esempi, spiega Stern: «Ci sono parecchie serie israeliane acquistate da emittenti straniere che ora sono ferme sullo scaffale. Stanno aspettando di programmarle in un momento più tranquillo e appropriato». […]
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La paura, secondo queste testimonianze, è soprattutto europea. Le nostre tv temono di essere identificate con Israele molto più di quelle americane, che «sono grandi e potenti, e investire in una serie con noi non è considerato cooperare con Israele perché siamo insignificanti rispetto a loro. Ma anche loro stanno valutando la disponibilità dei loro spettatori a guardare contenuti israeliani». I timori europei, par di capire, sono più politici, quelli americani più commerciali.
Il problema recente, oltretutto, ne aggrava uno preesistente. Negli ultimi anni, i produttori israeliani si sono talmente abituati al successo internazionale che praticamente non avviano un progetto se prima non raccolgono fondi stranieri. Sono le tv israeliane a imporglielo: appena un produttore si presenta, gli dicono di procurarsi gran parte dei soldi all’estero.
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Vogliono cioè la certezza di costi bassi e guadagni alti, grazie ai cofinanziamenti internazionali.
[…] L’ultimo allarme è il più drammatico: «Rischiamo di diventare come la Russia, che dopo la guerra in Ucraina è diventata persona non grata nell’industria dell’intrattenimento globale e c’è una sorta di boicottaggio non dichiarato dei suoi contenuti e dei suoi creatori. Lo dicono diverse emittenti, che aspettano di vedere la nostra posizione e si preoccupano del sentimento anti-israeliano».
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