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    LA VITA IMMAGINARIA - LA SERIE NETFLIX “INVENTING ANNA”, SU ANNA SOROKIN, LA FINTA EREDITIERA CHE TRUFFÒ BANCHE E AMICI PER 200MILA DOLLARI, STA SCALANDO LE CLASSIFICHE DI GRADIMENTO, CON OLTRE 196 MILIONI DI ORE VISTE NELL’ULTIMA SETTIMANA – MA COS’È CHE ATTRAE COSÌ TANTO DELLA SUA STORIA? PERCHÉ LA SERIE RACCONTA LA “SCAM CULTURE” E LA RIVALSA DEI MILLENNIAL CRESCIUTI IN UNA SOCIETÀ MEZZA MARCIA - VIDEO 


     
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    Giulia Zonca per "la Stampa"

     

    anna sorokin la ragazza che si fingeva ereditiera 2 anna sorokin la ragazza che si fingeva ereditiera 2

    Il profilo Instagram con i contatti giusti, gli occhiali perfetti, la borsa battezzata nel nome evidente, l'accento studiato, l'insofferenza sfacciata: la posa è la chiave del successo di Inventing Anna, la serie con cui finalmente si esce dall'era fake. Addio culto del fasullo. Il telefilm di Netflix ha registrato 196 milioni di ore viste nell'ultima settimana, è uno dei titoli più considerati e un viaggio di liberazione in nove puntate.

     

     È l'apice dell'arte della truffa patinata, la teoria del travestimento che seduce portata talmente all'eccesso da essere insostenibile. Anna piace perché è facile da detestare. Acchiappa perché si capisce immediatamente che è destinata a cadere e per una volta non è voyeurismo. La protagonista è una donna che esiste sul serio e ha fatto (più o meno) tutto quello che le imputa la sceneggiatura. 

     

    Anna Sorokin arriva dalla Russia, studia moda e arte a Parigi, si trasferisce a New York, diventa Anna Delvey, annusa l'aria e si spaccia per una ereditiera tedesca che ha un fondo milionario bloccato da un padre despota e indifferente. Lei vende questa storia. Prima lo fa da semplice influencer che attira inventori di app, stylist ancora convinti che serve un diavolo, possibilmente femmina, per vestire Prada e finanziatrici attirate dall'idea di spingere ragazze intraprendenti in un ambiente maschilista. 

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    Grazie a loro passa al secondo giro e si inerpica ad ammaliare banchieri, archistar, chef e magnati. Segue la scala sociale contemporanea ed è sempre, costantemente, insopportabile. Come chi le sta intorno. La giornalista che fa da controcanto straccia l'etica dopo dieci minuti, i truffati sono ricchi annoiati disegnati per meritare di espiare qualsiasi colpa. La storia funziona perché sapientemente accompagna Anna (e tutte le motivazioni di rivalsa) al fallimento. 

     

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    Il percorso diventa chiaro quando lei, prossima alle lacrime, si gioca la carta sessismo: «Sono una donna di 25 anni, mi guardavano la faccia e il culo e facevano supposizioni». Una causa troppo importante per tollerare chi la svilisce, a quel punto si guarda l'episodio successivo per la massima pena. Che arriva e nella vita va pure più storta: la vera Anna, ormai tornata Sorokin, ha ceduto i diritti sulla propria esistenza a Netflix per ripianare parte dei debiti e dopo 4 anni di carcere è uscita per sei settimane ed è stata arrestata di nuovo. 

     

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    Le è scaduto il visto, ora aspetta di essere rimpatriata in Germania e non potrà più rientrare negli Usa, nella terra delle opportunità su cui ha modellato i propri sogni. Niente amici, niente contatti, niente vestiti, sono rimasti i follower. E chi è convinto che valgano tutti indistintamente oro forse dovrebbe guardare il telefilm. 

     

    È un prodotto firmato Shonda Rhimes che da Grey' s Anatomy in poi non ha mai sbagliato un'uscita. Usa i suoi classici, ben assestati, trucchi: il montaggio a scatti, gli stessi fatti visti da ogni singolo personaggio e la perfidia diffusa. Sta diventando troppo cinica, probabilmente lo sa. Con Anna affonda la scam culture, letteralmente cultura della truffa, praticamente la seduzione di bugie usate per avere ciò che il destino non ha dato.

     

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    Autocompensazione: spacciare una scenografia al posto del passato e fregare il prossimo per riequilibrare le sfortune. A lungo è sembrata una pratica quasi lecita, quanto meno comprensibile: la rivalsa dei Millennial cresciuti in una società guastata da chi li ha preceduti. Estrema sintesi che ha retto solo come impalcatura e ora si sgretola mentre, non a caso, piovono titoli sul tema. Il truffatore di Tinder, docufilm definito fin dal nome oppure The Dropout che sta per uscire negli Stati Uniti e in Italia passerà su Dysney + dal 20 di aprile. 

     

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    Al centro della trama c'è un'altra ragazza che per imporre la propria, non provata, teoria scientifica, la veste di un pedigree totalmente inventato. Si spinge sull'ipocrisia mentre il pubblico si fa gli anticorpi e i più giovani prendono le distanze dal motto social «Fake it until you make it», fingi fino a che la frottola non sarà vera, ma anche fino a che ce la fai e adesso è molto più difficile. 

     

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    Ai trentenni dà fastidio essere considerati fasulli e poi è vero che la confusa generazione X si è distratta e ha sparpagliato danni, ma pure che senza i coming out di chi oggi è oltre i 40 saremo tutti assai meno fluidi. Il trasporto fake si è appoggiato ai contrasti e alle rivincite, ha sfruttato le frizioni, si è nutrito di scontento, ha fornito alibi e movente a chi però ormai sa di non poterla fare franca. 

     

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    E ancora peggio di non avere più appoggio, sostegno, condiscendenza. Anna dà fastidio e non perché truffa i banchieri, piuttosto perché tradisce una categoria: tutte le venticinquenni che hanno idee solide e curriculum veri. Nella fiction come nella realtà Anna Delvey tenta di creare una fondazione con il suo nome. La prima volta che la nomina è «un rifugio per artisti», la seconda «un club di eletti dentro il quale formare circoli ancora più esclusivi». Dopo due anni di pandemia nessuno vorrebbe stare in un posto così poco frequentato.

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