Franco Giubilei per la Stampa - Estratti
VITTORIO DE SICA
«Io sono nato e rinato alla vita artistica almeno cinque volte». Parola di Vittorio De Sica che artisticamente era uno e centomila, parafrasando Pirandello, con cui il regista e attore ebbe a che fare sia rappresentandolo a teatro nella prima fase della sua carriera, sia «rischiando» di ricavarne un film negli anni Trenta, quando ricevette una sceneggiatura del drammaturgo che poi fu proposta anche a Murnau. Nessuno dei due progetti andò in porto, ma una foto di De Sica accanto a Pirandello testimonia il legame fra i due artisti, fra le centinaia di immagini, manifesti e oggetti che danno corpo alla mostra “Tutti De Sica”.
Andrà in scena a Bologna dal primo ottobre – quando arriverà a fare gli onori di casa il figlio Christian, che grazie agli archivi delle due famiglie di Vittorio ha dato un contributo decisivo alla mostra - al 12 gennaio alla Galleria Modernissimo, nel cuore della città, dove si trova anche il cinema omonimo che ospiterà una retrospettiva completa dei film del maestro oltre alle opere dei nipoti Andrea e Brando, a loro volta registi. Un mosaico fra pubblico e privato che non trascurerà i rapporti con le due mogli, Giuditta Rissone e Maria Mercader.
CHRISTIAN E VITTORIO DE SICA
Tutto questo a mezzo secolo dalla morte, avvenuta il 13 novembre del 1974. Un’occasione per fare i conti con la questione chiave: l’importanza di De Sica nel cinema, nel teatro, nella musica – chi non ricorda Parlami d’amore Mariù, dal film Gli uomini che mascalzoni del 1932 – e in generale in qualsiasi mezzo avesse a disposizione, dalla radio alla tivù. Artista tanto eclettico e innovativo, da attore come da regista, che il direttore della Cineteca di Bologna Gianluca Farinelli non esita a paragonarlo a due monumenti del secolo scorso: “Orson Welles e Charlie Chaplin”. Insieme a lui percorriamo in anteprima spazi e soluzioni scenico-visive della mostra.
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A cominciare dai pezzi più rari: la valigia da teatrante, quella con i trucchi di De Sica, quando l’attore si faceva le ossa sui palchi italiani, e poi i due Oscar che lo consacrarono sul piano internazionale come il principale artefice del Neorealismo insieme a Rossellini: le statuette per Sciuscià e Ladri di Biciclette. Di quest’ultimo si può vedere esposta la bici al centro del dramma di un padre e il suo bambino, ritratti da De Sica fra miserie e difficoltà di un Paese messo in ginocchio dal conflitto appena terminato.
EMI E VITTORIO DE SICA
E poi il carteggio con Giulio Andreotti che lo invitava, con garbo spietato, a dare una versione meno pessimistica di un Paese disastrato e dei suoi mille problemi, Umberto D e la polemica sui «panni sporchi da lavare in casa», i costumi di Sofia Loren di Matrimonio all’italiana e Pane amore e… , e naturalmente i percorsi immersivi corredati di filmati che fanno entrare lo spettatore nei mondi di De Sica: si tratti del «corridoio del Neorealismo» come dei personaggi multiformi interpretati dall’artista nel numero-monstre di 160 film, addirittura più di Totò. O delle esperienze televisive, indimenticabile quella a Canzonissima alle prese con Mina e Corrado.
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«E’ un po’ come entrare a casa sua ripercorrendone il cammino – spiega Farinelli -. Dalla prima interpretazione nel Processo Clémenceau con Francesca Bertini nel 1917 ne seguiamo la gavetta e la carriera teatrale, i primi dischi e il cinema, di cui è un innovatore gigantesco». Fino agli Anni 10 la Settima arte in Italia aveva vissuto una grande stagione, poi col decennio successivo la crisi, da 500 a 50 film all’anno; quindi arriva il sonoro e «De Sica fa una rivoluzione: è già un bravissimo attore teatrale, ha una voce meravigliosa e sa anche cantare, con Gli uomini che mascalzoni nel ’32 diventa la vedette del cinema italiano». Quando il fascismo chiede agli attori di mettere la camicia nera lui, dal ’39 in poi, passa dietro la cinepresa: «Filma da regista I bambini ci guardano e nel ’46 il suo Sciuscià è il primo film non in inglese a vincere un Oscar», aggiunge Farinelli.
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Successo bissato da Ladri di biciclette due anni dopo, poi esce Umberto D, ma con la guerra fredda anche l’aria che soffia sul nuovo cinema italiano si fa gelida: «Le lettere di Andreotti a De Sica fra il ’49 e l’inizio degli Anni 50, che esponiamo, gli fanno capire che il mondo è cambiato e che non c’è più spazio per quel modo di raccontare la realtà». Così Vittorio torna a fare l’attore, anche se in Italia nessun regista ha veramente il coraggio di dirigerlo: «Era l’unico cineasta del nostro Paese ad aver vinto due Oscar, si può immaginare la difficoltà del giovane Comencini nella serie Pane amore e…». E non sarà l’ultima statuetta, perché la terza arriva con La ciociara e la quarta con Il giardino dei Finzi Contini, quattro anni prima della morte.
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Crea la coppia Mastroianni-Loren in un capolavoro come Matrimonio all’italiana, mantiene un rapporto a tratti burrascoso con Cesare Zavattini, che i diretti interessati paragonavano a «un cappuccino in cui nessuno può dire chi è caffè e chi latte». «Nessun uomo di cinema italiano è paragonabile a De Sica – conclude Farinelli -. Oltre a quel che ha fatto prima della guerra, c’è il Neorealismo e negli Anni 50, trasforma il maresciallo di Pane amore e… in una figura di protezione in un Paese in piena e drammatica trasformazione. Ha interpretato molto più degli altri tutti i possibili italiani del suo secolo. Senza di lui forse non ci sarebbero stati né Mastroianni né Sordi».
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