Amedeo Feniello per il “Corriere della Sera - La Lettura”
INVASIONE ROMA
Bisogna fare attenzione alle minacce dell’Isis e non fermarsi alla superficie. Dietro di esse c’è qualcosa di più profondo della semplice propaganda. C’è una consapevolezza, un richiamo continuo a una legittimità che ha radici profonde nell’idea del califfato, globale e pervasivo. Con obiettivi e nemici chiari e condivisi dai loro confratelli: Israele, i «crociati» occidentali, la cristianità in genere. E, naturalmente, il suo maggiore simbolo, Roma. Con un sogno: prenderla e distruggerla.
Oggi, la minaccia crea turbamenti e timori. Ma anche, fortunatamente, ironie: «Come perdere Roma? Impossibile: ci si perde, ma sul Grande Raccordo anulare…». Eppure c’è stato un momento nella storia in cui la città fu quasi a un passo dal diventare musulmana.
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Tutto accade molto tempo fa, più di mille anni fa, nell’846. In quegli anni la Penisola fu investita dalla jihad , con una lunga e terribile contabilità fatta di centinaia di raid, tanto sulle coste quanto nell’interno. La Sicilia era stata appena invasa. La Sardegna e la Corsica erano soggette ad attacchi continui. I tratti tirrenici e adriatici — fino a Genova; fino a Grado e alle coste dalmate — sotto scacco. E nell’interno le scorrerie toccarono gli Abruzzi, Spoleto, la Lunigiana, il Piemonte. Episodi che fecero scalpore. Ma niente fece tanto scalpore come l’assalto a Roma.
«Nel mese di agosto 846 — scrive Prudenzio di Troyes — i saraceni e i mauri investirono Roma devastando la basilica del beato Pietro principe degli Apostoli, asportando insieme all’altare che sovrastava la sua tomba tutti gli ornamenti e i tesori. Alcuni duchi dell’imperatore Lotario furono empiamente tagliati a pezzi». Da Harun ibn Yahya sappiamo quale fosse la loro provenienza: venivano dalla Spagna. Mentre il Liber pontificalis riporta come fosse composta la flotta e quanti gli armati: arriva ad Ostia un gruppo di 63 navi, da cui scendono cinquecento cavalieri e altrettanti fanti.
I fatti si svolsero così: i saraceni, dapprincipio, risalgono il Tevere, senza trovare alcuna resistenza. Indisturbati, assaltano le sedi dei forestieri, le scholae dei pellegrini sassoni, frisoni e franchi. Saccheggiano tutta la zona fuori dalle mura aureliane. Profanano le basiliche di San Pietro e San Paolo. Le locuste, si disse, sono arrivate a distruggere le messi.
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L’unica reazione arriva dai contadini romani: respingono la truppa saracena, che scappa via, scompaginata. Il gruppo di predoni, una volta lasciata la città, però si riunisce di nuovo. Si avvia lungo l’Appia. Arriva a Fondi. A settembre comincia ad assediare Gaeta. Da Amalfi e da Napoli partono dei rinforzi, guidati dal console Cesario. Un contingente dell’imperatore franco corre in aiuto di Roma, ma cade in un agguato. Vengono trucidati tutti. I saraceni allora si dirigono verso l’abbazia di Montecassino, un boccone ghiottissimo.
Per strada bruciano e rapinano tutto quello che trovano, chiese, cappelle, villaggi. Li blocca solo un violento nubifragio. Si avvicina l’inverno. Per i razziatori è il momento di rientrare alle loro basi. Il blocco di Gaeta si spegne. Scatta, giocoforza, la tregua.
È la fine del raid, ma l’evento che ha colpito Roma lascia una profonda ferita, i cui echi si proiettano ancora nel XII secolo, come nella Destruction de Rome , sorta di proemio alla Chanson de Fierbras .
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Ma la città non cadde. Fu quasi per cadere ma non cadde. Comunque, si resta colpiti da come andarono le cose. Appare, per noi, quasi inconcepibile che, nel corso di questo rapido e tumultuoso attacco, non sia esistito alcun meccanismo organizzato di difesa della città santa, salvo da parte dalla popolazione. Eppure, il gruppo saraceno non era enorme né invincibile: basta un nubifragio a fermarlo, un po’ poco.
Allora che cosa lo rese quasi imbattibile? Diversi fattori: la capacità di sorpresa dei saraceni; l’effetto psicologico, legato a una fama (e a una propaganda) che li rendeva tanto più potenti di quanto non fossero; la mancanza di una reale forza di dissuasione cristiana, considerata la lontananza del potere imperiale e l’incertezza dell’atteggiamento degli alleati locali, in special modo delle città tirreniche di Napoli e Amalfi, spesso ondivaghi e favorevoli ai musulmani.
Fatto sta che essi rimasero a stazionare, praticamente indisturbati, per quattro mesi, tra Roma e il basso Lazio. E posero a repentaglio la periferia della capitale della cristianità, misero alle strette Gaeta e ridussero in macerie tutta la zona tra Fondi e Montecassino.
Nuove minacce Isis via Twitter, bandiera sul Colosseo
Dopo l’incursione, a Roma la vita riprende a fatica. La prima cosa da fare è ricomporre un tessuto connettivo, per far fronte a un futuro che si presenta, per molti versi, oscuro e con poche speranze. Nell’assenza del potere imperiale, il ruolo di promotore viene preso da Papa Leone IV.
Bisognava coordinare le forze, riassestare le difese, operare con una forte e persuasiva opera di propaganda che rianimasse le popolazioni avvilite, rinvigorire lo zelo religioso e, in ultimo, ricorrere all’aiuto dell’allora potente impero bizantino. Intanto un’onda di commozione fa il giro d’Europa. Era stato violato il centro della cristianità, i suoi luoghi più sacri che neanche gli unni avevano profanato. Bisogna far presto. Muoversi. Riorganizzarsi.
Che cosa fare? Il destino, oltre che nelle mani del Papa, è in quelle dei signori del circondario, dei principi longobardi come delle città di mare tirreniche. E si opera in due modi, seguendo modalità entrambe idonee, in chiave difensiva locale e in chiave militare, con la creazione di una rete di alleanze. Su questa base, Papa Leone dà avvio alla costruzione delle mura leonine, che sorgono tra l’848 e l’852 a protezione del colle Vaticano e della basilica di San Pietro: un bastione che permette la difesa del corpo più sacro di Roma.
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Nell’849, invece, le città tirreniche, con l’ausilio del Papa, riportano la vittoria navale di Ostia: un momento simbolico più che una vera svolta, che comunque riduce per un po’ la pressione delle incursioni sulla costa. Un fatto è certo: dopo questi due momenti, nessuna incursione tocca più direttamente la città pontificia, sebbene il suo hinterland continui a essere sottoposto a frequenti aggressioni saracene, fino agli inizi del X secolo.
Questa la storia dell’assalto a Roma, al tempo in cui in Italia ci fu la jihad : il periodo forse meno conosciuto della nostra storia, quando la Penisola, punto di giunzione delle tre grandi civiltà franco-latina, bizantina e musulmana, divenne teatro di uno scontro di civiltà duraturo, dai caratteri spesso terribili e apocalittici. Un tempo in cui la minaccia di un califfato senza confini che spazzasse via la città di Roma sembrò essere davvero dietro l’angolo, quasi sul punto di avverarsi.