Sandro Iacometti per “Libero quotidiano”
CASSAZIONE
Gettare la rete a casaccio, in un tratto di mare sconosciuto, sperando che qualcosa resti impigliato. È questa, più o meno, la strategia antievasione del fisco, che un paio di giorni fa ha ricevuto un clamoroso via libera dai supremi giudici della Corte di Cassazione. Che l' Agenzia delle entrate possa ficcare impunemente il naso nei nostri conti correnti non è una novità.
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La possibilità di effettuare singoli accessi motivati è prevista da una legge che risale 1973. Dal 1991, poi, sono partiti i primi controlli automatici, inizialmente limitati all' esistenza di un rapporto finanziario e dei dati anagrafici del titolare. Il salto di qualità avviene nel 2006, con la creazione dell' Anagrafe dei rapporti finanziari a cui banche e intermediari devono periodicamente trasmettere i dati.
L'ANAGRAFE DEI CONTI
AGENZIA ENTRATE
Ma per gli ispettori del fisco il lavoro di indagine è ancora eccessivo. Così, a colpi di interventi legislativi e direttive dell' Agenzia delle Entrate, si arriva al capolavoro orwelliano messo in piedi dal governo Monti alla fine del 2011: ogni anno tutti gli intermediari finanziari sono obbligati a inviare al fisco non solo l'elenco dei conti correnti, dei depositi, dei risparmi, delle polizze e delle cassette di sicurezza intestate a tutti i contribuenti, ma anche le consistenze patrimoniali, i movimenti e il valore di acquisti e vendite.
La vita finanziaria di ogni singolo contribuente viene poi gettata in pasto al supercervellone della Sogei "Servizi per i contribuenti", Serpico per gli amici, che ha il compito di stilare delle liste selettive di contribuenti a rischio evasione. La logica è infernale: per finire nel mirino bastano scostamenti minimi rispetto a parametri stabiliti a tavolino dall'Agenzia delle entrate, sulla base delle statistiche Istat sul costo della vita.
AGENZIA ENTRATE 1
Come non bastasse, nell'ambito della grande riforma renziana della riscossione, l'accesso indiscriminato alle banche dati è stato consentito anche alla ex Equitalia, oggi confluita nell'Agenzia delle entrate. Pure gli esattori a caccia di crediti, insomma, possono sbirciare tranquillamente nei nostri conti. L'ultimo grottesco capitolo di una giustizia tributaria che inverte l'onere della prova e procede per tentativi ed errori nel nome di una colpevolezza diffusa e presunta dei contribuenti è quello scritto ieri dalla Cassazione.
Nella sentenza n. 8266 depositata il 4 aprile gli ermellini hanno stabilito, testualmente, «che l'Agenzia non ha l'obbligo di motivare la ragione per la quale ricorre alle indagini bancarie, né il loro svolgimento presuppone elementi indiziari gravi, precisi e concordanti di evasione fiscale». Il principio è chiaro: gli ispettori del fisco possono muoversi non solo senza dover rendere conto a nessuno, ma anche in assenza del seppur minimo appiglio che giustifichi la loro azione.
evasori fisco
Non si tratta più di pesca a strascico, di colpi sparati nel mucchio, di accertamenti sintetici basati su semplici presunzioni, ma di arbitrio e discrezionalità elevati a norma. In barba non solo alla tutela della privacy e allo statuto del contribuente, ma anche alle elementari regole se non del diritto, sicuramente del buon senso.
A farne le spese è stato un imprenditore finito nella rete del fisco per aver fatto nel 2004 e 2005 versamenti e prelievi che alle occhiute attenzioni degli ispettori sono risultati non congrui con il reddito dichiarato.
PRESUNZIONE LEGALE
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Ritenendo violati i suoi diritti, il poveretto si è rivolto ai giudici, riuscendo ad ottenere ragione sia in primo grado, davanti alla Commissione tributaria provinciale di Genova, sia in sede di appello, con la sentenza favorevole della Commissione tributaria regionale della Liguria del febbraio 2011. L'Agenzia delle entrate, però, non si è data per vinta (anche perché le spese legali, in caso di soccombenza, le paghiamo noi).
E ha continuato la sua battaglia in Cassazione. Qui la musica è cambiata. Secondo i supremi giudici, infatti, la legge del 1973 «prevede una presunzione legale in base alla quale le operazioni su conti correnti bancari vanno imputati a ricavi e a fronte della quale il contribuente può fornire la prova contraria anche attraverso presunzioni semplici». Insomma, l'imprenditore è colpevole, a meno che non riesca a provare la sua innocenza.