Malcom Pagani per Vanity Fair
jovanotti
Jova e gli esilii consapevoli: «Non appena finito di scattare, Nan Goldin ha appoggiato la Leica e osservando il tramonto oltre la finestra mi ha detto: “Sai che ogni sera mi fermo a guardare il sole perché per quindici anni non sono mai uscita di casa?”».
Jova e le fughe cercate: «In Vaticano, dove lavorò per mezzo secolo, mio padre aveva un collega, un suo superiore, Luciano Casimirri. Nei fine settimana, con una moglie dal nome indimenticabile, Ermanzia, ci invitava nella casa di campagna di Monterotondo, io avevo 8 o 10 anni e loro ci raccontavano con ammirazione del figlio Alessio.
jovanotti
Era molto più adulto di me e, a detta dei suoi, era un sub provetto. Io me l’immaginavo subito come una specie di Jacques Cousteau e fantasticavo su questo lupo di mare con il fucile in mano e il cappellino rosso calato sulla testa.
Una di quelle domeniche Alessio si manifestò e mi portò nella sua stanza per mostrarmi pesci bellissimi di ogni dimensione, tutti catturati e catalogati da lui, tra cui spiccava la foto di una micidiale murena. Venni a sapere, anni dopo, che era entrato a far parte delle Brigate Rosse partecipando al rapimento di Aldo Moro e al massacro della sua scorta in via Fani, per poi scappare in Nicaragua. Non ci possiamo fare mai un’idea definita su niente e nessuno.
Ci si immerge e non si sa mai cosa si può incontrare, le murene per esempio, attraenti e pericolosissime». Esistono latitudini per ogni latitanza e istantanee per ogni stagione della vita. Per scoprire che la sua non sarebbe stata regolare, Lorenzo Cherubini ha impiegato il suo tempo e messo in fila le proprie Polaroid. Quelle da ragazzo, all’epoca in cui non conosceva sbadiglio: «Tornavo alle cinque di mattina e facevo esperimenti alimentari che se mi azzardassi a replicare adesso, morirei.
jovanotti
Scaricavo un paio di scatole di mais in una zuppiera, ci mischiavo pezzi di würstel, ketchup e maionese e poi, guardando l’alba da via Porta Cavalleggeri 107, tra le luci del benzinaio per strada e quelle di San Pietro, mangiavo di corsa prima di infilarmi nel letto». E quelle di oggi, messi alle spalle 51 anni di cui intravedi qualche segno sotto un cappello che non si toglie mai.
Tre settimane ancora e Oh, vita!, prodotto da una leggenda come Rick Rubin, il quattordicesimo album a quasi tre decenni dal primo, Jovanotti for President, entrerà nelle case, dalle radio e dalle tv, esattamente come il potente segnale della Radio Vaticana, quando era solo un bambino «un po’ rotondo» a che suonasse il citofono, parlasse al telefono o persino – giura – aprisse il frigo.
JOVANOTTI
Accanto a lui, siede Francesca. Si sono sposati nel 2008, stanno insieme da sempre. Hanno finito col somigliarsi, anche per fisiognomica. Lui faceva il dj a Radio Foxes, Cortona, Toscana di frontiera, un po’ Etruria e un po’ Umbria. Le diede un biglietto per invitarla a ballare. Lei lo conserva ancora: «Ci segnai a penna la data anche se alla festa», sorride, «non mi mandarono».
Quando iniziò la festa vera?
«Il mio ingresso nella vita sociale risale all’estate del 1982. Quella del Mondiale vinto dall’Italia. L’estate più importante di sempre, quella in cui scoprii la musica. Iniziai a mettere dischi in radio e poi in una discoteca di Cortona. La mia prima paga da dj, 5.000 lire, me la ricordo ancora».
JOVANOTTI NUOVA ZELANDA
Perché fu l’estate più importante di sempre?
«Perché coincise con l’esatto momento in cui capii cosa volessi fare nella vita. Senza neanche l’ombra di un dubbio. Fu un istante di illuminazione totale, quasi mistica».
Il primo mentore?
«Mio fratello Umberto – lo ringrazierò per sempre – aveva un amico che faceva un programma di dediche a Radio Foxes. Mi portò con lui, entrai in questo studiolo, con le scatole di uova alle pareti per insonorizzare la stanza in maniera rudimentale e pensai: “Cazzo, ma questo è il posto più bello del mondo”. Avevo paura di essere arrivato sul ciglio del paradiso e di esserne subito cacciato. Chiesi timido: “Posso tornare?».
jovanotti alla festa del cinema (8)
La fecero tornare.
«“Certo che puoi”, disse l’amico di mio fratello, “e già che torni”, aggiunse, “ti insegno delle cose”». Fu di parola? «“Siccome è estate e se ne vanno tutti”, continuò, “ti spiego come fare i nastri per la notte”.
Poco tempo dopo mi ritrovai in onda. Dalle 14 alle 16, a titolo gratuito. All’epoca la radio era un passatempo e non c’era uno di noi che venisse pagato». La versione di Francesca: «Noi ragazze lo ascoltavamo tutte, era un appuntamento fisso».
Parla l’amore?
jovanotti alla festa del cinema (9)
«Francesca non mente. La trasmissione ebbe successo e io quel successo lo avvertii subito. A pelle. La radio, il mezzo, era potentissima».
Che musica ascoltava allora?
«Prima di venire qui, in macchina, per esempio, risentivamo Cara di Lucio Dalla». La intona: «Cosa ho davanti, non riesco più a guardare, dimmi cosa ti piace, non riesco a capire dove vorresti andare».
Potrebbe inciderla.
«È una canzone pazzesca, un capolavoro di scrittura, ma al tempo stesso è una canzone che non avendo un ritornello, oggi sarebbe quasi impossibile immaginare. Gli anni in cui ho fatto il dj sono stati musicalmente molto felici, vari e liberi».
Li ha affrontati senza pregiudizi?
«Io ascoltavo Rino Gaetano, Edoardo Bennato o Lucio Dalla senza mai presumere che avessero più autorevolezza di Alberto Camerini o dei Righeira».
jovanotti con la moglie francesca valiani
E il problema economico? Come lo superava?
«L’altro giorno pensavo che in fondo, un vero e proprio stipendio io non l’ho mai avuto. Da dj sono stato pagato a concerto o a serata e oggi a pensarci bene è ancora così. I soldi, lavorando, si trovavano».
Che lavori ha fatto?
«Il cameriere alle sagre, e lì si prendevan le mance che era un piacere e il barista nel bar di mio zio e lo sverniciatore».
Lo sverniciatore?
«In un posto in cui si restauravano mobili. Una roba di una tossicità spaventosa. Negli anni ’70 la gente laccava i mobili, poi 10 anni dopo pensò di tornare al legno. Portavano questi armadietti alla bottega e io senza mascherina, con una spatola di metallo, spandevo il liquido. Aveva un odore acido. Toglievo la vecchia vernice e nel vederla venire via, nel restituire al mobile il suo antico aspetto, nello spatolare, glielo devo dire, un po’ godevo. Con quei soldi mi comprai una marmitta esagerata per un motorino che mio padre aveva comprato di seconda mano da un prete».
jovanotti con la figlia alice
C’è chi sostiene che togliendo la vernice di un tempo, rispetto alla sua produzione iniziale, abbia fatto lo stesso con la sua carriera. Leggo?
«Legga, certo».
Michele Serra: «Scrivemmo cose di fuoco contro quel ragazzotto libero e giocondo, non tutte infondate se si riascoltano canzoncine come La mia moto e Gimme Five...».
«Sa cosa ho provocato di buono? Che dopo di me, con gli altri, i commentatori sono stati più attenti. Oggi, quando si affaccia un fenomeno, c’è più cautela. Anche se ti fa schifo e non lo capisci, non dici: “Questo è un coglione”. Non si sa mai. Nessuno può sapere cosa accadrà domani».
Ma lei si sentiva un coglione?
«Io avevo poco più di vent’anni. E avere vent’anni è una figata, una cosa bella a prescindere. Se poi vuole la verità, gliela dico».
jovanotti alla festa del cinema (6)
E qual è la verità?
«Che quando rivedo le mie cose degli anni ’80 o altri artisti diventati poi adulti nelle loro esibizioni giovanili, provo imbarazzo e penso che tutti, nessuno escluso, erano migliori di me. Prendi De André, nel primo disco ci sono almeno cinque capolavori. Ascolti Love Me Do dei Beatles e pensi: “È perfetta”. Guardi un concerto dei Rolling Stones a vent’anni e rughe a parte capisci che in fondo sono rimasti identici a loro stessi. Dei giganti. Io un gigante non ero. Da ragazzo avevo solo una cosa».
Che cosa?
«Quella cosa che non ha nome. Si può chiamare fame o energia folle. Ma dal punto di vista formale ero un disastro. Se risento i miei dischi o ascolto il mio canto capisco che erano tremendi».
Ride. Perché ride?
«Perché ho imparato che poche cose sono più importanti di saper ridere di sé».
Allora Serra aveva ragione ad accanirsi?
«Forse avrebbe dovuto porsi delle domande, ma viveva in un mondo intriso di ideologia, sulla carta immutabile. Il comunismo era lì per restare. Avrebbe dovuto disegnare un universo perfetto, con un metodo unico per tutti. Poi abbiamo capito che un metodo valido e uguale per tutti, semplicemente, non esiste».
Ripensa spesso ai suoi inizi?
jovanotti
«Prima le ho parlato di imbarazzo, ma l’imbarazzo non ha niente a che vedere con la vergogna. Io non mi vergogno di niente. Soprattutto dei disastri di un debutto. Li osservo con allegria.
Nel Jovanotti di ieri non c’era furberia, ma una specie di vitalità selvatica infilata in una forma musicale che non era neanche tale. Il mio primo disco l’ho fatto campionando pezzi di altri e di certo non corro a metterlo su YouTube. Ma non vorrei mai cancellare quel pezzo di storia, né far finta che non sia esistito. C’è stato. E poi c’è stato molto altro».
Che rapporto ha avuto con la critica e con l’astio in questo trentennio? Prima di essere osannato è stato osteggiato. Da un sondaggio di Cuore del 1994, tra le cose per cui valeva la pena vivere, spiccava un sinistro: «Impiccare Jovanotti per le palle».
«Era sempre nella top ten. Me lo ricordo. Le critiche mi facevano male, ma le assorbivo in modo un po’ cattolico».
jovanotti
E com’è questo modo un po’ cattolico?
«I cattolici percepiscono il male come qualcosa che prima o poi passerà. Alcune persone non avevano una buona opinione di me. Avversavano qualcosa che pensavano di conoscere e in realtà non conoscevano.
Ma non ho mai pensato che quei giudizi fossero irreversibili e anzi, in qualche maniera, l’aria salata mi stimolava a lavorare sul miglioramento. Mi facevo domande: “Perché pensano così di me? Cosa ho fatto di sbagliato?”. Poi ho capito una cosa semplice: stavo soltanto ottenendo successo in una maniera oltraggiosa rispetto ai canoni. Quel passaggio rappresentava un materiale utile per costruire il futuro. Per costruire la prossima cosa».
E la «prossima cosa» è importante?
«La prossima cosa è sempre la cosa più importante e si costruisce anche tenendo conto del modo in cui vuoi arrivare agli altri e raccontare la tua storia».
Lei come la racconterebbe la sua storia?
jovanotti
«Sono cresciuto con il mì babbo, con la mì sorella e con i miei due fratelli in un appartamento che mi pareva grandissimo. Umberto aveva una camera senza finestra, io e Bernardo dormivamo insieme.
La dispensa di casa somigliava a quella dei tempi di guerra. All’Annona, lo spaccio vaticano, papà comprava tutto all’ingrosso. I bancali di carta igienica, i biscotti a milioni, che ci avremmo potuto mangiare per anni».
Il Vaticano era una presenza incombente?
«Incombente per niente, familiare senz’altro. Vagavo per i corridoi come uno di casa. Alla finestra del Conclave mi sono affacciato tante volte. Quella del Papa invece l’ho vista da vicino senza il cuore di aprirla. Ho scostato la tenda però, quel tanto che bastava».
Con sua madre che rapporto aveva?
«Meraviglioso. Ma quelli della mia prima adolescenza erano anni cupi in cui ti poteva capitare di cadere nella lotta armata o nella droga e di non sapere neanche il perché. Mamma era preoccupata. Ai figli dei suoi amici della parrocchia erano capitate brutte cose.
Sa quante volte mi sono alzato di notte con lei che mi controllava il braccio per vedere se avessi qualche buco? Agli scout in verità, la droga nessuno sapeva cosa fosse. Ma quando un capo squadriglia scout morì di overdose rimasi di merda. Era un motivatore, un entusiasta. Da uno come lui non me lo sarei mai aspettato».
Un ricordo su tutti?
jovanotti-cappello
«Il 16 marzo 1978, il giorno del rapimento di Aldo Moro. Ci fecero uscire tutti da scuola all’improvviso: “Non vi fermate, andate dritti a casa, c’è stato un attentato molto grave”. È strano come la storia, a Roma, incroci la vita delle persone. La telefonata di mio padre che nell’81 mi dice: “State a casa, non uscite, hanno sparato al Papa” non me la sono più dimenticata».
Parliamo di un altro mondo, senza computer. Cosa pensa della modernità social? Della relazione tra privacy e comunicazione?
«Non giudico e penso che ogni personaggio viva dentro il suo racconto. E che nel momento in cui il tuo racconto è autentico valgano tutte le narrazioni». Anche quando suonano inautentiche? «Esiste una linea sottile in cui l’inautenticità finisce per essere autentica.
Le nuove generazioni si affacciano al mondo dello spettacolo utilizzando i mezzi di comunicazione da marinai navigatissimi. Una volta le persone che andavano in Tv per la prima volta erano impacciate e vivevano l’esposizione di sé come una grande conquista. Era un mondo analogico. Oggi a sei mesi d’età sei ripreso da una telecamera».
JOVANOTTI
Come nel Truman Show.
«Un bellissimo film che ho sempre pensato nascondesse un errore nel finale. Per essere veramente rivoluzionario e raccontare in anticipo il futuro, Jim Carrey avrebbe dovuto rimanere dentro il suo mondo».
Come mai?
«Perché non c’è differenza tra dentro e fuori: se tu sei libero, sei libero ovunque. Su una nuvola, in carcere, su un albero. Il vero eroe resta, non esce. Il vero eroe combatte e riscrive la sua storia cambiando il sistema dall’interno».
Lei disse che pensava di morire tra i 30 e i 40 anni perché, pur chiedendoselo, non riusciva a immaginare cosa sarebbe diventato una volta superata quell’età.
«Continuo a farmi ogni giorno quella domanda e ancora non mi sono dato una risposta. Ogni tanto faccio ragionamenti folli. Proprio ieri pensavo: ho 51 anni, da 30 faccio dischi e il mì babbo è morto a 80 anni. Quindi, ammesso e non concesso che viva fino alla sua età, ho davanti a me lo stesso intervallo di tempo che ho speso nella musica».
jovanotti
Che bilancio fa di questi trent’anni?
«Ho fatto un sacco di cose, ne ho imparate altre, ne ho disimparate altrettante. Ho conosciuto un sacco di gente, mi sono entusiasmato, ho deluso, mi sono scoperto a deludermi di me stesso, ho recuperato, ho vinto, ho perso. È stato veramente un viaggio pazzesco: chi mi dice che i prossimi trenta non possano essere persino più entusiasmanti o avventurosi?».
Il tempo che passa?
«Non c’è niente di scritto, se trent’anni fa lei mi avesse chiesto cosa avrei fatto dopo, non ne avrei avuto idea. Avrei potuto risponderle che sarei stato comunque dentro la musica, perché è la bolla fuori dalla quale non mi riesco neanche a immaginare, ma per il resto mi riesco a pensare felice da tutte le parti. Ho altri trent’anni di attività? Potrei fare il direttore d’orchestra».
concerto jovanotti firenze
Aznavour suona ancora e ha 93 anni.
«Grandissimo Aznavour. Mia madre lo adorava. Anche se le sue canzoni in italiano, dal punto di vista dei testi, sono le più atroci che si ricordino. Per un pezzo come Ed io tra di voi oggi lo arresterebbero».
Parliamo del caso Weinstein?
«Se sei in una situazione di grande potere hai più responsabilità. Tra 10 anni, quando un produttore non inviterà più una ragazza di vent’anni con i pantaloni abbassati in camera sua perché sa che potrebbe andare in galera, un passo avanti sarà stato fatto.
Ma il passo più grande si farà quando a far paura a un uomo non sarà la galera, ma l’abitudine alla propria prepotenza».
Ha detto che è anche una questione di potere.
«Perché nel mio piccolo so cosa significhi essere in una situazione di potere. Se le ragazze corrono da te, non succede perché sei bello».
jovanotti
Come saranno maschi e femmine tra cinquant’anni?
«Ammesso che il maschio non si estingua, saranno diversi».
Lei sembra un artista lontano dalla nevrosi.
«Rispetto al mio lavoro posso essere ipernevrotico, ma non rispetto al mio ruolo nella società. Di quello non mi frega più di tanto. Mi piace quello che faccio e mi piace così tanto che non vedo il resto».
Si considera un rompicoglioni sul lavoro?
Sono attento e sono un po’ rompicoglioni. Non faccio scenate però e non urlo se qualcosa non va».
Per altruismo?
«Forse per egoismo. Cerco di ottenere il meglio da quelli che lavorano con me. Voglio concentrazione e dedizione, ma non penso che rivolgendomi agli altri con aggressività abbia in cambio un risultato migliore. Se faccio la pazza ottengo il terrore e il terrore non è mai utile. Poi c’è il momento in cui ti girano i coglioni, ma ho una soglia di sopportazione altissima. Mi irritano la disattenzione e la sciatteria. Quella roba lì mi fa arrabbiare».
jovanotti 4
Cosa serve per diventarle amico?
«Che tu mi dica che le mie cose ti piacciono molto». Ride.
Ne ha bisogno?
«Mi perseguita da sempre una sensazione, la sensazione di non saper fare niente».
Davvero?
«Scelgo collaboratori bravi perché so che mi potranno aiutare. Anche a imparare. Non delego mai, ma sono lì con te perché mi piace esserci, sentire mie le cose, scambiarmi idee che mi migliorino sul serio».
I soldi sono stati importanti?
«È stata importante l’indipendenza economica. Avere i miei soldini. Se mi regalavi 5.000 lire, non provavo la stessa gioia che avvertivo guadagnandomeli nel fare i caffè al bancone del bar. È un principio, l’indipendenza, che applico anche ai rapporti umani. Significa essere liberi».
lorenzo jovanotti al mare da gossipblitz
E cos’è la libertà?
«È poter scegliere di stare insieme o di lasciarci dopo un pezzo di strada perché qualcosa è cambiato. Sa cosa è importante davvero per me? Saper fare gruppo, creare entusiasmo all’interno di una stanza, essere disponibile con gli altri fino all’ultimo perché un’idea, una buona idea, può arrivare anche dopo il suono della campanella».
Una cosa cattiva, almeno una, lei l’ha fatta nella sua vita?
«Sul lavoro no. Credo di essere stato sempre corretto, ma a volte, a livello personale, sono stato presuntuoso con qualcuno e ho un po’ trascurato gli affetti. Questo un po’ l’ho fatto. Ho dato per scontato tante cose. Adesso che non ci sono più i miei per esempio, mi sembra di aver fatto poco per loro. Il sospetto mi torna spesso in mente e se mi torna così spesso in mente, penso, un motivo ci sarà».
Potrebbe essere soltanto senso di colpa. E il senso di colpa non ha a che fare con le realtà.
«Infatti i miei erano felici di questa bomba in musica che gli era esplosa in casa e il mio babbo prima di morire me lo disse. A volte uno si crea da solo i sensi di colpa e, per essere migliore nel futuro, ti proietti nel passato. Ma grosse minchiate delle quali pentirmi, non credo di averne fatte».
jovanotti da giovane
Uno dei suoi fratelli sapeva mettere le mani nel motore, un altro osservava gli aerei. Umberto è morto esattamente dieci anni fa.
«Ci penso tutti i giorni, continuamente, e cerco di vivere l’assenza come una presenza. Umberto sta dentro di me».
Era simpatico?
«Minchia se lo era. Simpaticissimo. Era una persona veramente eccezionale. Avevo volato con lui, era molto bravo nel guidare gli aerei. Ma gli aerei cadono. Queste cose succedono. Solo se resti chiuso nel tuo appartamento, la vita non è pericolosa».
Come ha fatto a conservare la dote che le fa ancora sentire le cose?
«Me l’ha fatta conservare la paura di perderla. Anzi, ne sono certo».
Il suo rapporto con la politica?
«Voto. Ma seguo la politica con meno partecipazione. La nostra politica è come Beautiful: puoi perdere delle puntate, riattaccarti al video dopo sei mesi e rientrare tranquillamente senza aver perso nulla».
RENZI E JOVANOTTI
A lei le serie Tv poi devono piacere. Sul suo computer vedo l’adesivo di Bryan Cranston, la star di Breaking Bad.
«Io e Francesca siamo stati anche in pellegrinaggio ad Albuquerque, in New Mexico. Ci siamo spinti fino alla casa della famiglia di Walter White. Davanti alla location c’era un cartello: “La serie è stata girata qui, ma ora non rompeteci i coglioni”».
Materia di serialità eterna è Berlusconi. Vi siete conosciuti nel 1989.
«Venivo dal mio primo successo e lui mi volle incontrare per offrirmi un contratto in esclusiva con Fininvest. Bonolis usciva dalla Tv dei ragazzi per diventare Bonolis. E c’era un buco nel pomeriggio di Italia 1».
Cosa avrebbe dovuto fare?
jovanotti
«Condurre programmi per ragazzi e prestarmi ad altre ospitate. Andammo con Claudio Cecchetto ad Arcore e ci trovammo a pranzo con Berlusconi e un giovanissimo Giorgio Gori. Passò anche Pier Silvio, che conoscevo perché veniva all’Hollywood dove mettevo i dischi con Ringo, il dj storico di quel locale».
Che ricordo ha di quel pranzo?
«Bello. Ci mostrò la villa, la pinacoteca, la palestra. Era già un grosso personaggio, Berlusconi, ma io non avevo alcun pregiudizio nei suoi confronti. Quel giorno giocava il Milan e lui dopo pranzo ci invitò ad andarlo a vedere. Atterrammo nel parcheggio di San Siro con l’elicottero e lui disse: “Chi non piscia in compagnia...” con un tono un po’ goliardico.
Non mi stupii perché quella tradizione tutta maschile l’avevo già praticata. Fu una bellissima domenica. Ma non credo che io per lui fossi speciale, penso soltanto che quello spettacolo fosse parte del kit. E sedurre un ragazzino di 21 anni non è difficile. Probabilmente quella stessa fascinazione funzionerebbe ancora oggi su un ragazzo di quell’età».
jovanotti
Consigli per gli acquisti?
«Berlusconi mi disse: “Leggi! Leggi! Leggi il più possibile. Libri, romanzi, qualsiasi cosa, ma leggi perché serve”». Gli diede retta? «Io il consiglio l’ho seguito, ma non saprei dirle se l’ho seguito perché me l’ha suggerito lui o se lui me lo abbia suggerito perché ha capito che ne avevo bisogno».
Un’ultima curiosità: cosa altro le ha detto Nan Goldin dopo gli scatti, a fine sessione?
«“Ho capito che non sei schiacciato dall’essere un personaggio”. È uno dei complimenti più belli che abbia mai ricevuto».
un giovane jovanotti jovanotti soldato