LA RECENSIONE DEL FILM "VAN GOGH" DI MARCO GIUSTI
Mattia Carzaniga per “Vanity Fair”
julian schnabel
Julian Schnabel, pigiama viola e vestaglia a righe bianche e verdi, mi chiede da dove vengo. Rispondo Milano, e lui si mette a ricordare: «Ci ho vissuto per un po’, ero giovane e non avevo i soldi neanche per pagarmi il biglietto del tram. Entravo nelle salumerie e sentivo che tutti chiedevano “Mozzarella! Mozzarella!”, io non sapevo che cosa fosse, vedevo solo che costava troppo. La prima vera mozzarella della mia vita l’ho mangiata poi a Venezia ventidue anni fa, quando ci presentai il mio primo film, Basquiat. Non me la posso dimenticare».
A Venezia il 67enne regista e pittore è tornato quest’anno per Van Gogh - Sulla soglia dell’eternità, al cinema dal 3 gennaio, biografia libera e pittorica che s’è guadagnata la Coppa Volpi per l’interpretazione del suo protagonista Willem Dafoe, anche lui più immaginifico che imitativo, per quanto assai somigliante. Per la stessa parte, adesso Dafoe è anche candidato ai Golden Globe del prossimo 6 gennaio come miglior attore in un film drammatico.
Ho letto che ha scelto di raccontare Van Gogh perché condividete la stessa visione dell’arte: ovvero?
willem dafoe in van gogh di julian schnabel
«Lui diceva che l’essenza della natura è la bellezza. È vero? Non lo so, anche se è un punto di vista altamente condivisibile. Sono più d’accordo con un’altra sua frase: io sono quello che dipingo. Ecco, a questo credo profondamente».
Ricorda la prima volta davanti a un suo quadro?
«Sarà stato attorno ai vent’anni. Ovviamente conoscevo la sua opera anche prima, ma i quadri non li devi vedere sui libri: devi sentirli sulla pelle. A folgorarmi è stato uno dei suoi alberi blu».
julian schnabel 1
Che cosa aveva di così rivoluzionario?
«La tradizione prevede che i pittori copino i maestri che li hanno preceduti, lo fanno ancora oggi gli studenti delle accademie. Lui no. Lui copiava i quadri degli amici, quelli che gli capitavano davanti agli occhi, e persino le sue stesse tele. In questo senso, è stato il primo pittore postmoderno. Per dire, ha firmato cinque versioni del ritratto di Madame Ginoux del suo amico Gauguin.
Oppure trovava la copertina di un giornale dedicata al Giappone e, visto che quel Paese lo affascinava moltissimo, la rifaceva uguale. Se è vero che alla base dell’invenzione c’è la necessità, allora Vincent è l’esempio perfetto. Quando non hai una modella, dipingi quello che ti trovi di fronte: una finestra, la tua stessa faccia.
Se non hai davanti i girasoli, li rubi a un’altra opera. Mi ricorda Caravaggio, che ha passato gran parte della vita agli arresti domiciliari e si è dovuto ingegnare come ha potuto: per questo dava alle sante i volti delle prostitute».
Ha scoperto qualcosa di Van Gogh che non sapeva?
willem dafoe in van gogh di julian schnabel 4
«Il mio approccio è andato nella direzione opposta: è un pittore così noto e documentato che ho voluto distruggere tutto ciò che già conosciamo di lui e fargli dire quello che volevo io, per esempio che ama Shakespeare perché è il più misterioso dei poeti. Credo in un cinema che pone domande: sono più interessanti delle risposte».
Lei ha detto che pittori si nasce.
«Questo è sicuro. Anche se il mio primo disegno io l’ho fatto solo a 4 anni».
willem dafoe in van gogh di julian schnabel 3
Qual era il soggetto?
«All’epoca, su Life Magazine, venivano pubblicizzate le scuole d’arte come quella di Westport, in Connecticut, con l’immagine della testa di un cavallo che spuntava dalla stalla di una scuderia. Sotto c’era scritto: “Se tuo figlio riesce a riprodurla, forse è un artista”. Credo di aver disegnato tantissime teste di cavallo da bambino. Poi sono passato a esercizi del tipo: ritrai un uomo sotto la pioggia.
Che poi uno tutte le volte dovrebbe chiedersi: ma perché quel tizio deve stare sotto la pioggia, non può prendersi un ombrello? Comunque, sono andato avanti per un po’ con le riproduzioni in serie degli stessi soggetti e solo più avanti, direi nel 1975, ho dipinto quella che considero la mia prima vera opera d’arte: Jack the Bellboy, se la cerca su Google la trova. È stato quello il momento in cui ho capito di aver finalmente realizzato un oggetto artistico».
Julian Schnabel
Negli ultimi anni, l’arte contemporanea sembra diventata un interesse di massa.
«Si può dire così. Sarà anche colpa o merito di Internet, è lì che adesso un sacco di gente scopre l’arte. Si condividono immagini di quadri su Instagram, di cui a me non frega nulla, ma è comunque un modo per parlarne. In realtà penso che si tratti più di un mezzo per mettere in contatto le persone che di un sistema per diffondere l’arte. È che io amo la materia, è lì che si cela il significato di un’opera. Anche per questo un prodotto artistico non è la stessa cosa, sullo schermo di un computer o di uno smartphone».
Julian Schnabel Rula Jebreal
Anche il mercato dell’arte è cambiato?
«Come dice una battuta del capolavoro di Jean Renoir, La regola del gioco: “Se a questo mondo esiste una cosa terribile, è che ognuno ha le sue ragioni”. Perciò oggi per un artista è molto più difficile mantenere la propria autonomia: ci sono in ballo troppi fattori, e ciascuno ha una sua motivazione precisa. Quando un’opera riesce a comunicare direttamente qualcosa a qualcuno, è un miracolo».
Che cosa la ispira?
JACK THE BELLBOY JULIAN SCHNABEL
«Le donne (fa una lunga pausa). Non solo quelle con cui sono stato. Mia madre è stata fondamentale per me, mi ha insegnato a prestare attenzione all’arte. Ingrid Sischy (giornalista, critico d’arte e International Editor di Vanity Fair, morta nel 2015, ndr) è stata un’amica carissima, mi ha influenzato molto. E così Hélène Rochas. E Laurie Anderson, assieme a suo marito Lou Reed, che pure non c’è più. Oggi m’ispira la mia fidanzata Louise (Kugelberg, ndr). Ha lavorato alla sceneggiatura di Van Gogh, ha collaborato con me a ogni aspetto del film. L’abbiamo costruito insieme».
I suoi amori passati sono stati spesso oggetti di gossip: crede che questo abbia distratto il pubblico dal suo lavoro?
il manicomio di saint paul de mausole visto da van gogh
«Lo trovo semplicemente molto offensivo. Non leggo nulla di quello che scrivono sul mio conto».
Ha visto The Square di Ruben Östlund, Palma d’oro al Festival di Cannes dell’anno scorso? Dominic West interpretava il ruolo di un pittore in pigiama e vestaglia che pareva ricalcato su di lei.
«Quel personaggio era un cliché: io non mi comporterei mai in quel modo. Mi è piaciuta molto la scena dell’uomo che imita la scimmia: gli spettatori che assistono alla performance prima lo temono, poi si trasformano in bestie anche loro. Per il resto, quel film l’ho trovato una perdita di tempo».
van gogh
Sembra aver passato i geni artistici ai suoi figli.
«Vito è un mercante d’arte, ed è molto bravo nel suo lavoro. Lola è una pittrice e una filmmaker, Cy cura mostre, il suo gemello Olmo ha appena prodotto un film, Stella fa l’attrice».
Essere un artista nell’era del digitale è più facile o più difficile?
«Non ne ho idea. L’importante è procedere secondo la massima di Tom Waits: “La vita è solo un sentiero illuminato dalla luce di coloro che hai amato”. C’è qualcos’altro che vuole sapere da me?».
julian schnabel
Direi che questo è un bel finale per un’intervista. Mi permetta solo una curiosità: quanti pigiami ha in valigia?
«Non così tanti… Quattro, forse. È sempre meglio che andare in giro in giacca e cravatta».
Questo che indossa è bellissimo.
«Glielo regalerei volentieri. Ma temo le stia grande».
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