Estratto del libro di Domenico Quirico, “Kalashnikov”, pubblicato da “la Stampa”
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Michail Kalashnikov racconta in prima persona – chi potrebbe farlo meglio? – i suoi interminabili novantaquattro anni ultimati il 23 dicembre del 2013, come si diceva un tempo, "serenamente", nel suo appartamento al terzo piano di una casa popolare di Izevsk negli Urali.
Lì dove aveva passato gli ultimi anni a smontare e rimontare il suo fucile con la concentrazione di un orologiaio e con il corpo che sembrava un'estensione dell'arma, interrompendo il lavoro solo per fare da cicerone agli ospiti illustri che venivano in visita alla "sua" fabbrica e al suo mausoleo, a cui aveva diritto fin da vivo.
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Ad amareggiarlo negli ultimi tempi non è stata tanto la constatazione che la sua creatura servisse a mutilare, massacrare, violare, torturare e attizzare conflitti dall'Afghanistan al Congo, dall'Iraq allo Yemen, ma che il gigante militar-industriale Rostec avesse deciso, dopo i droni e gli yacht, di lanciarsi nella costruzione di una vetturetta elettrica molto vintage, ispirata a un modello non proprio memorabile dell'epoca sovietica. Noi che possiamo leggere il suo passato abbiamo il lusso di iniziare dalla fine, dai funerali, che servono eccome a capire la vita di un uomo.
In sessantamila vanno a rendergli omaggio. A milletrecento chilometri da Mosca, al contrario di quello che è successo nella capitale e a San Pietroburgo, la storia non è stata ancora riscritta architettonicamente.
Chissà se resteranno tempo e soprattutto rubli. Qui siamo ancora alle piazze ventose e grigie con i colonnati di cemento e le contadine che vendono le mele, sedute nei loro scialli neri accanto alle pile di frutta luccicante. Le bandiere, naturalmente, sono dappertutto, piccoli schizzi di luce e di colore contro la pietra grigia di mausolei e monumenti.
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Rapaci aquile bicipiti accanto al rosso bolscevico pendono a trofei dai lampioni e sventolano a due a due anche sulle cappotte di auto e furgoni. Le si vede perfino sugli annunci pubblicitari della nuova Russia – finalmente! – consumista e con le vetrine piene. Soldati in eleganti cappotti invernali con il volto privo di spirito si dispongono per rendere onore.
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Ma chi conta in tutta quella folla anonima è uno solo: Vladimir Putin, da tredici anni presidente della Russia, o forse bisognerebbe dire molto di più che presidente o primo ministro (alterna i titoli con nonchalance democratica).
Ma ci sono autocrazie che non hanno bisogno di essere maestose in continuazione, sanno di avere in mano quello che è importante. È arrivato in elicottero, le immagini dei telegiornali mostrano lo zaretto con l'eterno sorriso gentile e distruttivo deporre un mazzo di rose rosse ai piedi della bara vegliata dai soldati in alta uniforme. Tre fragorose salve di kalashnikov rendono onore all'uomo che ne ha fatto un successo universale, venduto in centinaia di milioni di esemplari.
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Al ministro della Difesa Šojgu, rubizzo cortigiano in sottordine, tocca pronunciare parole commosse: «Il suo nome è il simbolo dell'efficienza e della gloria delle armate russe».
Il putinismo in fondo non ha fatto altro che riprendere il filo della lunga vita di Kalashnikov, il perfetto "homo sovieticus", filo che bisogna srotolare ben nascosto com'è sotto il mito ingombrante della sua invenzione: dalla Rivoluzione al Terzo millennio nel segno della grandezza come dismisura, potenza a cui vale la pena sacrificare tutto, anche il dolore dei singoli, semplici pedine della Storia.
Non è un caso che le spoglie di Kalashnikov siano le sole che riposano accanto a quelle del soldato ignoto della Seconda guerra mondiale nel pantheon militare di Mytišci vicino a Mosca.
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A ogni momento, scorrendo i decenni che ha vissuto, sempre obbediente, alacre e in apparenza felice sotto il tallone di chiunque, vorresti chiedergli, come al popolo russo di fronte al potere: «Dov'è il tuo limite di resistenza? A quale punto avvertirai il governo che oltre non si può andare?».
Michail Kalashnikov, anche se è stato molto prudente su quanto è accaduto dopo il Duemila, credo abbia accolto favorevolmente l'ascesa di Putin. Mi pare di leggere, fino ai reticenti, soffusi dubbi degli ultimi anni, un costante desiderio, perfino inconscio, che la Russia tornasse al suo destino dispotico.
Quello che ha reso possibile la sua invenzione. La visita al suo museo è deludente. Non c'è traccia dell'ingegnere tedesco prigioniero di guerra che gli fu assegnato perché gli insegnasse a copiare le caratteristiche di un mitra usato dalla maledetta Wehrmacht. Non fa mai il nome di chi fu il suo collaboratore più prezioso.
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Come non c'è traccia dell'inventore che forse più gli somiglia, che allo stesso modo ha creato un oggetto che è ancora un bestseller, l'unico prodotto israeliano conosciuto in tutto il mondo, il fucile mitragliatore Uzi.
Uziel "Uzi" Gal gli ha dato il nome e come Kalashnikov non ha mai percepito un centesimo dalla sua invenzione, che ha reso decine di milioni di dollari l'anno alle industrie militari israeliane. Robusto, affidabile, si può produrre a costi contenuti da stampi meccanici, senza macchinari costosi: sembra di leggere l'encomio dell'AK-47.
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Lo usano le guardie del corpo del presidente americano e i criminali, e la somiglianza continua. Uzi Gal viveva in una modesta casetta, non ha mai manifestato rimorsi per aver creato un congegno così perfetto per ammazzare la gente.
«L'essere umano è un punto di appoggio piuttosto instabile per le armi» si lamentava, liquidando così le moleste domande etiche. Kalashnikov avrebbe potuto dire altrettanto. Michail è morto alla vigilia dell'avvio del piano putiniano per mantenere la promessa fatta ai russi all'inizio del millennio: avrebbe restituito ai russi la potenza che avevano perduto negli anni della «grande umiliazione» dopo l'eutanasia dell'Unione Sovietica.
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Non ha potuto assistere alla vittoria russa nella guerra di Siria in aiuto dell'alleato cliente Bashar al-Assad, al ritorno prepotente dei russi in Medio Oriente davanti all'inerzia degli americani. E poi alla riconquista della Crimea. E all'inizio, subdolo ma implacabile, della guerra all'Ucraina. Sarebbe stato soddisfatto, Michail. Questa era la sua Russia: un luogo in cui il sistema di governo resta fondato sull'idea della malleabilità totale del materiale umano, da Pietro il grande a Stalin a Putin.
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Contro le logiche politiche vale il volere demiurgico. La vita di Kalashnikov, votata alla patria nonostante il suo lavoro fosse pagato con patacche e decorazioni, è la prova dell'efficacia di questo metodo.
Figlio di vittime del gulag, ma eroe di Stalin e poi di Breznev, di Gorbacëv e infine di Putin: un umile camaleonte del sopravvivere e di questo usus russo, di questo modo di vivere, di alimentarsi, di amare la natura e fare festa. In una foto lo si vede a fianco di un Putin ancora giovane: lui, piccolino, con la criniera candida e le decorazioni démodé infisse alla giacca che racconta l'epopea del suo fucile rivoluzionario, per l'ennesima volta felice di narrare la sua minuscola ubris prometeica e meccanica, tanto simile a quella del comunismo staliniano che ha amato.
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L'altro, l'uomo del Kgb che non ha mai sparato un colpo su un campo di battaglia ma compilava dossier, guarda davanti a sé, indifferente. Eppure, l'unico oggetto russo famoso nel mondo oltre alla vodka è proprio il fucile del compagno Michail. Dopo un secolo di comunismo e di postcomunismo aveva ragione Šigalév nei Demoni: «Tutti gli schiavi sono eguali».
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