Articolo di Paul Krugman per “The New York Times” pubblicato da “la Repubblica” (Traduzione di Fabio Galimberti)
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L’America è una nazione molto meno razzista di un tempo, e non sto parlando del fatto, che pure resta straordinario, che ci sia un afroamericano alla Casa Bianca. Il razzismo istituzionale puro e semplice che la faceva da padrone finché il movimento per i diritti civili non mise fine al segregazionismo ormai non esiste più, anche se forme di discriminazione più sottili persistono.
In alcuni casi sono cambiati in modo eclatante anche gli atteggiamenti individuali: per esempio, ancora in tempi recenti come gli anni ‘80, metà degli americani era contraria ai matrimoni interrazziali, una posizione sostenuta oggi solo da una minoranza trascurabile.
ferguson proteste e arresti
Eppure l’odio razziale rappresenta ancora una forza potente nella nostra società, come abbiamo visto con orrore proprio in questi giorni. E mi dispiace dirlo, ma le divisioni razziali continuano a essere un elemento dirimente della nostra vita politica, la ragione per cui l’America rappresenta un caso unico tra le nazioni avanzate per la severità con cui tratta i meno fortunati e per il fatto di essere disposta a tollerare che i suoi cittadini soffrano inutilmente.
ferguson poliziotti feriti
Ovviamente, dire una cosa del genere suscita subito reazioni irate a destra, perciò proverò a tenere la mente fredda e procedere con cautela, citando alcuni dei numerosissimi dati che dimostrano inequivocabilmente la persistente centralità della razza nella vita politica del nostro paese.
La mia visione del ruolo della razza nel cosiddetto “eccezionalismo” americano si basa in buona parte su due saggi accademici. Il primo, del politologo Larry Bartels, ha analizzato l’allontanamento della working class bianca dal Partito democratico, un fenomeno reso celebre dal libro di Thomas Frank What’s the Matter with Kansas?: Frank sosteneva che la destra, sfruttando i temi culturali, riusciva a convincere i proletari bianchi a votare contro i propri interessi.
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Ma Bartels ha dimostrato che questo fenomeno non aveva portata nazionale: era limitato esclusivamente agli Stati del Sud, dove la popolazione bianca era passata massicciamente dalla parte dei repubblicani dopo l’approvazione della legge sui diritti civili e l’adozione, da parte di Richard Nixon, della cosiddetta Southern strategy.
A sua volta, questo spostamento dell’elettorato del Sud è stato l’elemento che ha determinato lo spostamento a destra dell’asse politico americano dopo il 1980. È stata la questione razziale a rendere possibile il reaganismo. E ancora oggi i bianchi del Sud votano a stragrande maggioranza repubblicano, con punte dell’85 o addirittura del 90 per cento nel profondo Sud.
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Il secondo saggio, degli economisti Alberto Alesina, Edward Glaeser e Bruce Sacerdote, era intitolato Perché gli Stati Uniti non hanno uno Stato sociale all’europea?. Gli autori (che tra l’altro non sono particolarmente di sinistra) esploravano una serie di ipotesi, ma alla fine giungevano alla conclusione che la razza giocava un ruolo centrale, perché in America i programmi per i bisognosi spesso e volentieri vengono visti come programmi che aiutano “quelli là”: «All’interno degli Stati Uniti, la razza è l’elemento che maggiormente condiziona il sostegno per lo Stato sociale. Le tormentate relazioni razziali degli Stati Uniti sono senza alcun dubbio una delle ragioni principali dell’assenza di uno Stato sociale».
Questo saggio era stato pubblicato nel 2001 e ci si potrebbe domandare se da allora qualcosa è cambiato. Sfortunatamente, la risposta è che no, non è cambiato nulla, come si vede chiaramente se si va a guardare quali Stati stanno implementando — o stanno rifiutandosi di implementare — la riforma sanitaria di Obama.
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Per quelli che non hanno seguito la questione, nel 2012 la Corte suprema ha concesso ai singoli Stati la facoltà di bloccare il potenziamento del Medicaid (il programma di assistenza sanitaria pubblica per i più indigenti) previsto dalla riforma, un elemento cardine del piano per garantire copertura sanitaria agli americani a basso reddito.
Ma perché uno Stato dovrebbe scegliere di esercitare questa facoltà? Dopo tutto si tratta di un programma finanziato con fondi federali che garantirà grossi benefici a milioni di loro cittadini, farà affluire miliardi di dollari nell’economia locale e contribuirà a sostenere le strutture sanitarie locali. Chi rifiuterebbe una simile offerta?
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Al momento l’hanno rifiutata 22 Stati. E che cos’hanno in comune questi Stati? Principalmente un passato di schiavismo: fra gli ex Stati confederati, solo uno ha accettato il potenziamento del Medicaid, e anche se fra i 22 figurano pure alcuni Stati del Nord, oltre l’80% della popolazione dell’America anti-Medicaid vive in Stati che prima della Guerra di Secessione praticavano lo schiavismo. E non è solo la riforma sanitaria: il passato schiavista condiziona di tutto, dai controlli sulle armi (o meglio la loro assenza) ai salari minimi, dall’ostilità verso i sindacati alle politiche fiscali.
Sarà sempre così? L’America è condannata a vivere per sempre, politicamente, all’ombra dello schiavismo? Mi piace pensare di no. Un motivo è che il paese sta diventando sempre più variegato etnicamente e la vecchia polarizzazione bianchi-neri sta pian piano diventando obsoleta.
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Un altro motivo, come ho detto, è che in realtà siamo diventati molto meno razzisti e in generale siamo una società assai più tollerante su molti fronti. Con il tempo, possiamo aspettarci che il potere della politica-che-parla- in-codice diminuisca. Ma non siamo ancora a quel punto. Di tanto in tanto si leva un coro di voci che dichiarano che la razza non è più un problema in America. È un pio desiderio: il peccato originale della nostra nazione ancora ci perseguita.
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