Ettore Livini per "la Repubblica"
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I titoli hi-tech viaggiano a quotazioni siderali, le Borse sembrano avere pochi margini di crescita, i titoli di Stato sono a rischio tassi.
E la finanza italiana - a caccia come sempre di asset sottovalutati - riparte dalle radici ( nel vero senso della parola) dell' economia: l' agricoltura. La ratio di questo ritorno all' antico, considerando il potenziale rapporto costi/ benefici, non fa una grinza: il Belpaese è il regno delle biodiversità.
Il made in Italy agroalimentare è in pieno boom. I contadini italiani sono troppi e padroni di aziende troppo piccole.
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Un combinato disposto che ha convinto private equity, venture capital e grandi famiglie a scommettere sulla terra un po' del loro portafoglio con un obiettivo chiaro: fare soldi guidando il consolidamento di un settore che deve ancora imparare a sfruttare le economie di scala e a cavalcare la rivoluzione digitale.
L' ultima new entry tra i nuovi finanzieri-contadini è Idea Agro, il primo fondo tricolore dedicato ad aziende della filiera agricola che operano in modo sostenibile. Il veicolo messo a punto dalla Dea Capital della famiglia De Agostini (quella degli Atlanti) ha raccolto da diversi investitori istituzionali 80 milioni che saranno spesi «per acquistare aziende tra i 50 e i 150 ettari » .
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Una rarità in Italia dove in campagna resistono molte piccolissime aziende a realtà familiare: 1,5 milioni di fattorie (oltre il 40% in meno di inizio millennio) grandi in media 8,4 ettari.
Il doppio del 2000, ma una versione bonsai rispetto agli appezzamenti gestiti dai coltivatori francesi (65 ettari di media) e poco più che piccoli orti in confronto ai latifondi americani (180 ha.) e ai 3mila ettari curati in media dai farmer australiani.
La finanza di casa nostra ha già messo le mani con un ambizioso piano di sviluppo sulle Bonifiche Ferraresi. Nel capitale del gruppo (che gestisce 6.500 ettari) ci sono la Fondazione Cariplo, Carlo De Benedetti, i Gavio, la famiglia Dompè e il gruppo Cremonini.
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E a loro si è appena affiancato lo stato con Cdp Equity. Gli obiettivi di questo salotto buono in versione agreste sono ambiziosi: è stata coperta tutta la filiera dal campo allo scaffale con il marchio " Le stagioni d' Italia", la lavorazione è stata digitalizzata.
E con il recente aumento di capitale da 150 milioni l' obiettivo è arrivare a 10mila ettari di terra. « Il controllo della produzione, specie in un contesto geopolitico come quello attuale, e un progetto verticale sono attrattive fondamentali anche per gli investitori finanziari», dice Federico Vecchioni, amministratore delegato di Bonifiche Ferraresi.
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Altri big stanno studiando vie più "operative" e meno finanziarie per accompagnare lo sviluppo dell' agricoltura nazionale. Barilla e Ferrero, ad esempio, hanno puntato sui contratti di filiera per legarsi a filo doppio con i produttori nazionali di nocciole e grano duro. Loro garantiscono a chi lavora in campo prezzi fissi (spesso superiore a quelli di mercato), assicurazioni e il supporto tecnologico per migliorare le rese ( Barilla la fa con Horta, una start up nata all' Università Cattolica del Sacro cuore).
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In cambio chiedono standard di qualità minimi per il prodotto, un modo per far crescere in qualità l' agricoltura nazionale.
Un capitolo a parte merita il vino, un mondo dove a muoversi, per ora, è stata soprattutto la finanza straniera: Atlas (Belgio) ed Epi (Francia) hanno investito nella zona di Montalcino.
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Una famiglia di Hong Kong ha messo soldi in Terra Moretti che ha appena acquisito Sella & Mosca. La 21 investimenti dei Benetton sta trattando invece per entrare nel capitale della Zonin.
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