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    L'''AIDA'' LOW COST - MATTIOLI: ''PER LA PRIMA VOLTA NELLA STORIA, AL CARLO FELICE SI FA SENZA SCENE E SENZA ATTREZZERIA: NIENTE DI NIENTE, NÉ UNA PIRAMIDINA NÉ UNA PALMA. ALL’EGITTO PROVVEDONO LE «VIDEOSCENOGRAFIE» DI MONICA MANGANELLI: TUTTO QUEL CHE SI VEDE, E SI VEDE MOLTISSIMO, È PROIETTATO SULLE QUINTE VUOTE, COME IN UN VIDEOGIOCO FORMATO XXL, COLORATISSIMO, CANGIANTE E UN PO’ KITSCH''


     
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    Alberto Mattioli per www.lastampa.it

     

    L’idea è buona e da tenere presente, in questi tempi di vacche magrissime per gli esausti bilanci delle fondazioni lirico-sinfoniche, di cui anche la Corte dei conti dice che sono difficilmente sostenibili. E anche un bel record: perché è la prima volta nella storia, direi, che si fa Aida senza scene e senza attrezzeria: niente di niente, né una piramidina né una palma, addio a flabelli e pennacchi, alienati cocchi e cavalli. All’Egitto provvedono le «videoscenografie» di Monica Manganelli: tutto quel che si vede, e si vede moltissimo, è proiettato sulle quinte vuote, come in un videogioco formato XXL, coloratissimo, cangiante e un po’ kitsch.

     

    aida al carlo felice di genova aida al carlo felice di genova

    Se il teatro è realtà virtuale, questa è la realtà virtuale della realtà virtuale, illusione al quadrato, fiamme e sfingi, Nilo azzurrissimo e le fatali pietre più leggere mai viste, un gioco di citazioni perfino leggermente ironico. Anche i costumi di Anna Biagiotti oscillano fra l’Egitto «storico» e il fumetto (Ramfis sembra uscito da un manga), mentre il baritono regista Alfonso Antoniozzi risolve intelligentemente i movimenti delle masse, che poi tanto masse non sono, portandole su e giù con i ponti mobili e si concentra sulla recitazione dei cantanti, almeno di quelli che a recitare provano, perché alcuni non ci riuscirebbero nemmeno dopo un paio di secoli all’Actor’s studio.

     

    Il Trionfo è risolto con un balletto (le coreografie sono di Luisa Baldinetti),il finale del terz’atto no come in quasi tutte le Aide e gli etiopi vinti e avvinti sono «veri» migranti, messaggio non scontato e anche coraggioso, nella simpatica atmosfera da Anni Trenta che si respira nel Paese. Lo spettacolo, insomma, funziona e indica forse una strada da seguire per unire l’utile al dilettevole e soprattutto al risparmievole. 

     

    Purtroppo però non si possono ancora rimpiazzare i cantanti con ologrammi (oddio, per la verità stanno rimandando in tournée la Callas dopo una resurrezione virtuale, che Dio li perdoni). La compagnia genovese è disomogenea, circostanza del resto inevitabile se si mettono insieme un Radamès che canta sempre forte e un’Aida che canta sempre piano. Qui bisognerebbe forse iniziare a ragionare un po’ sul canto, e su quello verdiano in particolare, partendo per una volta, magari, dai fatti invece che dai dogmi o dalle mitologie.

     

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    Posto che le voci «di una volta» non ci siano davvero più, bisognerebbe allora proporre a quelle di cui disponiamo di concentrarsi sul personaggio e sulla parola, sullo scavo psicologico e sulla coerenza interpretativa: insomma, chiedere e ottenere dai cantanti quello che ha chiesto e ottenuto Daniele Gatti nel Rigoletto romano, e che è molto più verdiano che l’esibizione della «canna» o di acuti al fulmicotone (che peraltro quasi nessuno ha più). 

     

    A Genova invece sembrava di essere all’Arena e nemmeno in una serata di grazia. C’era un Radamès, Marco Berti, che ha volume e un bello squillo, sicché per esempio il suo «Sacerdote, io resto a te!» è notevolissimo. Ma deve aver messo in contratto che mai avrebbe cantato piano una nota che sia una. Anche Judit Kutasi, Amneris, e Sergio Bologna, Amonasro, sembrano tutti concentrati a buttare fuori quanto più fiato possibile. L’eccezione che conferma la regola è Svetla Vassileva.

     

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    Per fare Aida le mancano un paio di note in basso e un registro acuto più perentorio, quindi fila tutto il filabile, in un gioco di piani e pianissimi suggestivo benché alla lunga un po’ stucchevole: una graziosa Aida mignon. Comunque chi ha più voce di tutti e la emette meglio è Fabrizio Beggi, Ramfis, mentre i comprimari sono alterni: fioco il Re di Seung Pil Choi, sicurissimi sia il Messaggero di Manuel Pierattelli che la Sacerdotessa di Marta Calcaterra. 

     

    Ammetto però che dal mio posto vista podio ero un po’ distratto dal gesto iperatletico e superampio del giovin direttore, Andrea Battistoni. L’impressione è che si stia orenizzando, fra salti degni di Bolle ed effetti fin troppo plateali. Però è nel complesso una buona direzione, con un ritmo teatrale che non conosce cadute di tensione e qualche bella descrizione là dove Verdi fa l’impressionista, nel tempio di Vulcano o sulle rive del Nilo. Molto buona, peraltro, la prestazione dell’orchestra. Non era la prima, che si è svolta domenica, ma la prima replica: teatro non pienissimo (e se non riempie Aida allora qualche problema c’è) ma molti applausi.  

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