Leonard Berberi per il “Corriere della Sera”
agron shehaj
Sguardo verso l'obiettivo, giubbotto grigio, un orologio di plastica al polso sinistro e due dita alzate con la mano destra in segno di esultanza. Marzo 1991, stazione ferroviaria di Monguelfo (Bolzano). «Sono io, avevo 13 anni. Lo scatto è di Guido Perini, un fotografo del posto che si trovava lì per documentare l' arrivo di un gruppo di migranti albanesi», dice Agron Shehaj mostrando l' immagine.
Un quarto di secolo dopo quel bambino fuggito con la famiglia da Valona è diventato uno dei «padroni» dei call center d' Europa, Intercom Data Service (IDS), quindici uffici sparsi in Albania, oltre tremila dipendenti - «quasi tutti del posto, qualche italiano e un inglese» -, clienti del Belpaese, 20 milioni di euro all' anno di fatturato e quartier generale al «Bllok», pieno centro di Tirana, un tempo il quartiere blindato che ospitava il dittatore comunista e i suoi «delfini».
AGRON SHEHAJ
Lui, Agron, appartiene alla prima ondata migratoria degli albanesi. «Sono sbarcato a Brindisi dopo un lungo viaggio su una nave militare albanese», ricorda. «Abbiamo tentato di entrare all' ambasciata italiana a Tirana per chiedere asilo politico, solo che quel giorno l' edificio era chiuso. Siamo tornati a Valona e abbiamo aspettato l' occasione migliore».
L'opportunità s'è concretizzata in un'imbarcazione arrugginita. «In viaggio eravamo io, mamma, papà, il fratellino più piccolo e un altro centinaio di connazionali», continua. Una lunga traversata. «Ma a noi bimbi ci hanno messi nelle cuccette a dormire. Mi sono svegliato con gli elicotteri sopra e la banchina del porto di Brindisi davanti».
Poche ore dopo la famiglia era già su un treno. Direzione Nord Italia. «Ci hanno fatti scendere a Monguelfo e l'accoglienza è stata incredibile: decine di persone del posto ci davano cibo e vestiti. Qualche giorno dopo un signore ha fermato per strada me e il fratellino e ci ha regalato una bici: "Prendetela, è vostra", ha detto». Un anno fa, poco più su, è successo qualcosa di simile. «Quando i profughi siriani sono stati accolti alla stazione di Monaco di Baviera dai tedeschi con tanti regali ho rivisto le stesse scene dell' Alto Adige».
AGRON SHEHAJ
E l'impatto con il posto? «Un paradiso! C' era un ordine mai visto, tutto era pulito, tutto era curato, tutto era bello. Il contrario dell' Albania». Tre mesi dopo la famiglia di Agron si trasferisce a Bolzano. Poi il ragazzo si sposta a Firenze per studiare Economia e commercio all' università. «In attesa di discutere la tesi ho fatto alcuni colloqui per lavorare in banca a Milano e ho pensato che avesse senso aprire un call center in Albania dopo aver visto cosa facevano gli indiani per le aziende americane».
call center
Gli albanesi parlano l'italiano, si è detto Agron, il costo del lavoro è molto più basso, perché non offrire il servizio alle aziende che si trovano dall' altra parte dell' Adriatico? Nasce così, ed è il novembre 2005, IDS, il call center che ha messo in crisi quelli con sede in Italia. «Però ho i miei limiti», precisa il proprietario. «Le mie linee telefoniche non devono fornire servizi che danneggiano le persone». Allora niente contratti con aziende che offrono servizi vietati ai minori, cartomanzia, gioco d' azzardo o investimenti finanziari rischiosi.
CALL CENTER IN ALBANIA
Negli ultimi tempi investe anche sul digitale. Su «Local Web» (si occupa di promuovere le aziende e vendere i loro servizi e prodotti e che opera sia qui sia nel Regno Unito), su «Chebuoni.it» e «Homepal». L'Albania, sostiene, «è migliorata molto, ma resta tanta strada da fare». Mai pensato alla politica? «No, grazie. Si può fare bene alla collettività anche nel privato, creando posti di lavoro», taglia corto.
Sposato con una connazionale («presto prenderà anche lei il passaporto italiano»), due figli, ha deciso di trasferirsi a Milano. «Ma in famiglia si parla albanese: i bimbi sono nati in Italia, la loro lingua principale è l' italiano, ma devono conoscere anche quella dei genitori». Perché le origini, ecco, non vanno mai dimenticate.