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    L’AMORE È CECHOV - LA LETTERA ALLA SUA AMATA AVILOVA: "SIATE ALLEGRA, LA VITA NON MERITA LE RIFLESSIONI TORMENTATE CHE LOGORANO LE MENTI DI NOI RUSSI" - IL BACIO A TOLSTOJ CHE GLI DISSE: “SHAKESPEARE SCRIVEVA PORCHERIE, VOI SIETE PEGGIO!”


     
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    Notizie tratte dal libro “A proposito di ?echov” di Ivan Bunin pubblicate da “il Foglio del Lunedì”

     

    Che cosa scriverete sul mio conto nelle vostre memorie? Vi prego, evitate di scrivere che ero “un simpatico talentuoso e un uomo di specchiata onestà”» (?echov all’amico Ivan Bunin) .

     

    «Bisogna mettersi a scrivere solo quando ci si sente freddi come il ghiaccio».

     

    «Terminato un racconto bisognerebbe gettare via l’inizio e la fine. È lì che noialtri uomini di lettere concentriamo le bugie maggiori».

     

    «Quando lavoro, non faccio che bere caffè e brodo fino a sera. Caffè la mattina e brodo a pranzo. Altrimenti non riesco a lavorare».

     

    L’infanzia? La povertà gretta della famiglia; la madre taciturna, labbra sottili e sempre serrate; il padre «iracondo e severo» che costringeva i figli più grandi a cantare di notte nel coro della chiesa, li tormentava con le prove fino a tarda sera, autentico tiranno, e pretendeva che sin da piccoli, a turno, stessero a bottega, «occhio del padrone». Era tisico.

     

    Aveva un viso giallastro e rugoso che, appena quarantenne, lo rendeva simile a un anziano mongolo. Adorava l’ordine, dormiva poco, mangiava poco. A pranzo e a cena si alzava continuamente da tavola e faceva avanti e indietro per la sala da pranzo fermandosi accanto all’ospite di turno per riempirgli a forza il piatto. Poi toccava alla madre: le toglieva di mano coltello e forchetta e iniziava a tagliarle la carne in pezzi minuti, sempre con il sorriso sulle labbra, sempre in silenzio.

     

    «Non lo vidi mai in vestaglia. Era sempre molto accurato nel vestire, sempre impeccabile. Nutriva un amore ossessivo per l’ordine» (Bunin).

    «Descrivere il mare è difficilissimo. Sapete cosa ho letto di recente sul quaderno di uno scolaro? “Il mare era grande”. Punto. È straordinario, a parer mio».

     

    Si ha notizia di una sola serata in cui fu visibilmente scosso da un fiasco: la prima del Gabbiano, a Pietroburgo. «E soprattutto non date mai ascolto ai consigli altrui. Hai sbagliato? Hai mentito? L’errore è soltanto tuo».

     

    «È difficile scrivere dopo Maupassant, che dall’arte pretendeva moltissimo, ma dobbiamo farlo, specialmente noi russi, e dobbiamo anche osare».

    «Ci sono cani piccoli e cani grandi, ma i piccoli non devono farsi intimorire dai grandi: tutti devono poter abbaiare, ognuno con la voce che il Signore gli ha dato».

     

    «Sono considerati poeti, mio caro signore, soltanto coloro che usano parole come “orizzonte d’argento”, “accordo celeste” o “alle tenebre darem battaglia”».

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    «Sapete, di recente sono stato a Gaspra, da Tolstoj. Era ancora a letto, ma ha parlato a lungo di tante cose. Anche di me, tra l’altro. Alla fine, quando ho fatto per alzarmi e prendere congedo, mi ha afferrato per un braccio e ha detto: “Baciatemi”. L’ho fatto, e quel vecchio energico è stato lesto a sussurrarmi all’orecchio: “Non lo sopporto proprio, il vostro teatro. Shakespeare scriveva porcherie, ma voi siete addirittura peggio!”».

     

    «I decadenti non esistono e non sono mai esistiti. I decadenti sono dei furfanti, altro che! E offrono merce avariata... Misticismi e diavoli vari! Tutte panzane! Non lasciatevi ingannare. Altro che “pallide membra”, le hanno pelose come tutti quanti!» (alludendo alla poesia in un solo verso di Brjusov, Copri le pallide membra…).

     

    «Siamo un popolo molto pigro. E la nostra pigrizia ha contagiato persino la natura. Guardate quel fiume: non ha nessuna voglia di scorrere! Si piega in mille anse, da quanto è pigro. La nostra famigerata “psicologia”, il nostro “dostoevskismo” sono figli della pigrizia. Non abbiamo voglia di lavorare, e inventiamo panzane».

     

    «Mi accusano spesso, lo faceva anche Tolstoj, di scrivere di quisquilie, di non avere eroi positivi: rivoluzionari, Alessandri Magni o quanto meno un onesto capo della polizia, come Leskov... Ma dove volete che vada a prenderli? Noi siamo uomini di provincia, abbiamo città senza selciati, campagne povere, gente stremata... Da giovani cinguettiamo felici e contenti, ma verso i quarant’anni siamo già vecchi e pensiamo alla morte... Begli eroi!».

     

    Adorava, i ristoranti. Invitava continuamente gli amici a pranzo o a cena. E offriva lui.

    «Voi precisate troppo...» rimproverò a Gor’kij. «Se scrivo: “L’uomo si sedette sull’erba...” è tutto chiaro. Altro è, invece, se scrivo: “Un uomo alto e robusto di statura media e con la barba fulva si sedette sull’erba verde che nessun piede aveva mai calpestato, si sedette in silenzio, guardandosi attorno con timore e circospezione...”».

     

    «Non l’ho mai visto in collera, ?echov; si irritava di rado, e se mai succedeva riusciva a controllarsi alla perfezione. Né l’ho mai visto freddo, impassibile. A sentir lui, lo era soltanto mentre lavorara, e a lavoro si metteva sempre e solo dopo che l’idea e le immagini della futura opera gli erano perfettamente chiare, così da portarle a compimento quasi sempre di getto, senza pause di sorta» (Bunin).

     

    «L’ipocrisia dei letterati è la peggiore».

    «Quel tipo di donne che, a guardarle, vien fatto di credere che abbiano le branchie, sotto il bustier».

     

    Scriveva nel maggio 1889: «Se non riesco a tirar fuori due novelle al mese o diecimila rubli di reddito l’anno non è per pigrizia, ma per costituzione psicofisica: non amo abbastanza il denaro per concentrarmi sulla medicina e non ho abbastanza passione – e forse talento – per scegliere la letteratura.

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    Il sacro fuoco che è in me arde sempre, ma svogliato, senza fiammate né crepitii, ragion per cui non mi capita mai di scrivere trenta o quaranta pagine in una sola notte, o di farmi prendere dal lavoro al punto di non andare a dormire; è forse per questo che non ho partorito né sciocchezze clamorose né arguzie degne di nota.

     

    «Da morto sarò solo come lo sono da vivo». «Mi vergogno terribilmente di come scrivevo agli inizi!» si lamentava con lui uno scrittore. «Che dite!» esclamò ?echov. «Cominciare male è meraviglioso! Quando invece l’avvio è folgorante, allora sì che è finita!».

     

    «Ci sono mille sciocchi per ogni persona intelligente, mille parole vuote per ogni arguzia, che così finisce soffocata».

     

    «Ebbe o non ebbe un grande amore nella sua vita? Non credo. “L’amore” scrive ?echov sul suo taccuino “o è ciò che resta di qualche cosa che si guasta, ma che un tempo è stato immenso, oppure è parte di ciò che immenso diventerà in futuro, ma che nel presente non ci soddisfa e ci dà molto meno di quanto ci aspetteremmo”» (Bunin nel 1935).

     

    Lidija Alekseevna Avilova (Strachova da nubile, sorella di un seguace di Tolstoj) era una di quelle donne che ?echov tanto amava e che definiva «giunoniche».

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    La Avilova, sposata, tre figli, invitò a casa sua a cena ?echov mentre il marito era lontano, nel Caucaso. Annota nelle sue memorie: «Avevo preparato una cena fredda, con vodka, vino, birra e frutta. In sala da pranzo la tavola era apparecchiata per il tè».

     

    Un passaggio della lettera che ?echov scrisse alla Avilova il 14 febbraio del 1904, quattro mesi prima di morire: «Vi auguro ogni bene, e soprattutto siate allegra, guardate alla vita senza troppe complicazioni: è davvero più semplice di quello che sembra. E merita forse, questa vita che non conosciamo, le riflessioni tormentate che logorano le menti di noi russi? È tutto da vedersi...». (a cura di Luca D’Ammando)

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