Estratto dell’articolo di Gaia Piccardi per corriere.it
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Scordatevi Melissa Satta e lasciate ogni speranza che la lunga crisi di risultati di Matteo Berrettini, l’erbivoro del Nuovo Salario (quartiere romano) che a gennaio dell’anno scorso era numero 6 del mondo (best ranking) e oggi si è svegliato sprofondato al numero 34, sia da attribuire alla relazione sentimentale — benché molto paparazzata —, voi che entrate in questa storia a ritroso di ciò che sarebbe potuto essere e non è stato.
Non è la stagione che Berrettini voleva, anzi sta diventando l’annus horribilis che i tifosi gli rimproverano spietatamente (attenzione alle similitudini con un altro campione in grande difficoltà, Marcell Jacobs, strada facendo); la Cassazione dei social non ammette appello, però parallela alla realtà virtuale corre una verità oggettiva alla quale è necessario aggrapparsi, per non smarrirsi tra gossip e invidia sociale, e per tenere la barra dritta verso il sereno oltre la tempesta.
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C’è una fragilità di base dell’atleta, Berrettini come Jacobs. Questa è la prima verità conclamata. C’è (stata) una fase di sovraccarico di impegni extra (sponsor, spot, apparizioni, ospitate profumatamente pagate), che ogni enorme successo porta con sé, Berrettini (primo azzurro della storia ad arrivare in finale a Wimbledon, correva il 2021) come Jacobs (primo azzurro della storia a conquistare due ori olimpici nella velocità in pista), complicatissima da gestire, a maggior ragione se non sei consigliato al meglio. È come l’alpinista che scala l’Everest: dopo la fatica, arrivato in cima, è legittimo che si prenda qualche istante per godere del panorama. Senza però rimanerne abbacinato.
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Dopo un finale di stagione 2022 problematico, con un rientro affrettato in Coppa Davis a Malaga e l’insana idea di giocare il doppio con Fognini (Fabio, sia messo agli atti, non era d’accordo), il 2023 sembrava sorridere di nuovo a Matteo. La ripartenza in Australia, finalmente risanato, gli ha consegnato in dote tre bei successi (Monteiro, Ruud, Hurkacz, gli ultimi due top 10) e due battaglie toste con Tsitsipas e Fritz, perse ma lottate. Certo era la United Cup, una ricca esibizione giocata due set su tre, poi il tennis degli Slam tre su cinque è tutt’altra bestia, però i segnali erano buoni.
La prima batosta per il morale, il seme della crisi prima ancora che il tema ridiventassero gli infortuni, a Melbourne: uno scozzese con l’avvenire alle spalle e l’anca di titanio, il 36enne Andy Murray, gli annulla un match point e lo elimina 7-6 al quinto set. È il giorno uno e l’Australian Open del ragazzo che voleva riprendersi tutto con gli interessi è già finito.
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In quel momento la storia con Melissa è abbondantemente in rampa di lancio, diventerà pubblica tra basket (Forum di Assago) e calcio (derby a San Siro), famiglia e staff del giocatore considerano un fattore positivo che Matteo abbia trovato una stabilità affettiva e compensi con la felicità della vita privata la cocente delusione di Melbourne. Il tennis di Berrettini, però, si è preso una vacanza, insieme alla precaria solidità di un fisico strutturalmente sbilanciato (polpaccetti fini, torso da Hulk) in grado di sostenere solo on/off gli strappi violenti di un gioco moderno che poggia sull’architrave servizio-dritto. E infatti.
Ritiro ad Acapulco con Rune, rientro lento e macchinoso sul veloce di Indian Wells perdendo con Daniel, girone del purgatorio al challenger di Phoenix, sconfitto da Shevchenko, peggio che andar di notte a Miami, kappaò con McDonald. Tutti avversari di classifica molto inferiore a quella di Berrettini. Sono legnate, oltre che per il fisico, per il morale. Intenzioni e risultati disallineati, pensiero creativo che gli si ritorce contro. Invece di creare, distrugge.
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Matteo si rende conto che c’è (più di) qualcosa che non va. «Ho deciso di fidarmi di chi mi allena da sempre, mi sono rimesso a lavorare sodo» dice alla vigilia di Montecarlo, inizio della stagione su terra, ammettendo implicitamente di essersi preso qualche umana pausa di riflessione, di aver sostato troppo a lungo sulla vetta dell’Everest. Montecarlo, però, mentre anche in Jannik Sinner beffato da Rune in semifinale si apre una crepa mai più chiusa, è un’altra sberla in faccia. Cressy va via veloce al primo turno, poi la fatica improba per superare Cerundolo (osso durissimo sul rosso, lo scoprirà a stretto giro Sinner a Roma) chiede il conto a Berrettini: ritiro dal torneo, ennesimo bacino di carenaggio. Il resto è storia recente. Rinuncia a Roma e Parigi (per il secondo anno consecutivo), l’erba come balsamo per l’anima. A Stoccarda, il torneo a casa dello sponsor tedesco, è impensabile che il testimonial romano non ci sia. Forse un altro rientro affrettato per ragioni di business, ma il confronto con l’amico Sonego è impietoso: 6-1, 6-2. Matteo esce dal campo con la testa tra le mani, in lacrime. «Pensavo di essere più avanti» mormora. L’erba è subdola e impietosa: non perdona niente, nemmeno a chi è bello, ricco e famoso.
Berrettini in lacrime dopo la sconfitta con Sonego a Stoccarda
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C’è il Queen’s, l’anticamera di Wimbledon, dove Berrettini difende il titolo bis e 500 punti preziosi per il ranking. Il forfait (senza spiegazioni) arriva alla vigilia: primo turno contro Ruusuvuori, il finlandese che ha evidenziato sull’erba olandese gli attuali limiti di Sinner. Ancora problemi agli addominali, pare (qualcuno pensa a un infortunio diplomatico però nel caso di Matteo non è difficile credere che sia l’amaro refrain di una vita).
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A questo punto è a serissimo rischio anche Wimbledon, cui l’anno scorso Berrettini non potè partecipare per positività al Covid (e qui ci sarebbe da ragionare sul fatto che Matteo nel 2022, da favorito dei Championships, non si sia chiuso sotto una campana di vetro come hanno fatto Djokovic e Nadal, che ha addirittura chiesto ai genitori di indossare sempre la mascherina e di non andare al ristorante per limitare il rischio di contagio, ma questa è un’altra storia; in ogni caso la sfortuna non c’entra nulla…).
È la seconda stagione monca di un giocatore che non trova pace, cui il guru Paolo Bertolucci sulla Gazzetta consiglia, se è il caso, di fermarsi 5-6 mesi, per mettersi in condizione di risolvere il problema una volta per tutte. Sempre che il problema sia risolvibile e non cronicizzato, e qui torna il paragone con Jacobs.
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