Nicola Baroni per "il Venerdì di Repubblica"
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Quando i centralinisti di Telemarket, il giorno dopo una televendita di Alessandro Orlando, richiamavano i clienti, alcuni nemmeno ricordavano cosa avessero prenotato. Grafica di Schifano o scultura di Rabarama, cambiava poco: loro avevano già avuto quello che volevano.
Non l'ennesimo multiplo spacciato per pezzo unico ma la performance del televenditore: quella sì, pezzo davvero unico. Lo stesso accade oggi che Orlando vende arte sul canale 124 del digitale: «Un signore ha confessato di aver acquistato un quadro solo per come ho pronunciato il nome dell'artista: Greuze», racconta compiaciuto ed esagerando il suono gutturale a metà tra gorgia toscana e erre francese. «La gente compra me, non l'oggetto».
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Quarant'anni fa, correva il 1982, l'antiquario Giorgio Corbelli si trovò per le mani alcuni studi televisivi in provincia di Brescia cedutigli dal fondatore di ReteMia Giorgio Mendella per saldare i debiti.
La tv commerciale era agli esordi e le televendite un buon modo per riempire gli spazi vuoti tra i programmi. Corbelli, che di programmi a 27 anni non ne aveva, si inventò il primo e unico canale di sole televendite d'arte e antiquariato.
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Telemarket arrivò ad avere 250 dipendenti e un portafoglio clienti di oltre 350 mila nomi. I guai giudiziari del canale si sono sempre risolti in assoluzioni ma Corbelli nel frattempo è stato condannato per reati fiscali legati al fallimento di Finarte.
MEME E FAN CLUB
Anche Telemarketè fallita cinque anni fa e riacquistata da persone a lui vicine. Oggi trasmette in alcune fasce orarie sul canale 140. «La merce è sempre la stessa, ma a fare grande quel canale erano i suoi storici televenditori: Franco Boni, Bijan Parvizyar, Paolo Frattini, io stesso», ricorda Orlando, che nel 2015 si è messo in proprio.
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Per averne conferma basta un giro sui social, dove questi personaggi sono diventati protagonisti di meme, video celebrativi e fan club nostalgici. Su YouTube un video in cui Orlando presenta "un tappeto imperiale fatto dal figlio del sole per il sultano di Persia" ha raggiunto quasi un milione di visualizzazioni: a metà tra la performance teatrale, il seminario di marketing e un corso di retorica.
MA SOLO SCHIFANO E GUTTUSO
Anche Francesco Boni (per tutti Franco), a suo tempo imitato da Corrado Guzzanti, continua a vendere arte in tv per l'azienda del figlio Arte Investimenti. «A Telemarket se andava male vendevi 20 quadri su 40 presentati. Oggi 4 o 5 su 15», racconta. «Ma c'è più spazio per fare informazione culturale».
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Figlio e nipote di galleristi romani, Boni ha impugnato il martello da battitore per la prima volta a 16 anni, come racconta in Adesso parlo io, autobiografia appena pubblicata per Manfredi editore. Quando incontrò Corbelli aveva già una galleria a Palazzo Bernini a Roma: «Inizialmente ero scettico all'idea di poter vendere arte in tv. Fui smentito alla prima trasmissione: con un Gentilini, un Cascella e non so quanti Schifano feci 180 milioni di lire in quattro ore».
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Boni accetta di lavorare per Corbelli a condizione di presentare artisti di livello: Guttuso, De Chirico, Savinio, Manzoni, Fontana. «Incontro ancora direttori di musei e critici che mi ringraziano per averli fatti appassionare all'arte.
L'Italia ha la più alta percentuale di collezionisti al mondo e credo che Telemarket abbia contribuito. Oltre ad aver tirato la volata sul mercato ad artisti come Boetti e Schifano». Le televendite di Boni si dividevano in due parti: la prima informativa, con un linguaggio semplice, a cui parteciparono artisti come Arman e critici come Vittorio Sgarbi.
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La seconda di vendita, in cui Boni insisteva sull'investimento economico, puntando sulla colpevolizzazione dello spettatore: chi non comprava non sapeva fare affari. «Bisognava creare la necessità di avere quell'oggetto. Ritmo e tono incalzanti, per dar l'idea che il tempo stesse per finire. Ripetere gli stessi concetti quattordici volte con leggere variazioni».
I tic verbali - la risata trascinata e l'inconfondibile suono roco a intercalare - scandivano il ritmo, con risultati ipnotici. «Il trucco, quando si facevano presentazioni di un solo artista, era "bruciare" le prime opere, cioè fingere di vendere e poi presentarne altre simili».
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L'unico tipo di vendita che Boni continua a non saper affrontare è quella ad personam: «Se mi trovo a tu per tu tendo a essere troppo onesto e a descrivere anche i difetti. Quando andavo a trovare mia moglie nella sua galleria mi proibiva di parlare coi clienti».
UN TANTO AL CHILO
Se Boni puntava sui grandi nomi, Orlando puntava sui numeri: «Con una sola presentazione potevo vendere un'intera tiratura di cento serigrafie o sculture». Anche lui figlio di un gallerista, entrò in Telemarket nel 1995 e diventò subito il venditore di "tutto ciò che gli altri non vendono".
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«C'erano magazzini strapieni di servizi di posate d'argento: ne ho vendute a tonnellate». Come? «Facendo leva sul peso, appunto: dicevo che c'era sempre meno argento in circolazione. E aggiungevo la passione: per esempio la gioia di apparecchiare per una persona che ami».
Iniziò con 11 trasmissioni da quattro ore a settimana, in un'occasione arrivò al record di un miliardo di lire di prenotato. Non è mai andato sotto i centomila euro a trasmissione. Le sue presentazioni erano puro teatro: si sdraiava sui tappeti, abbracciava le sculture, si avvicinava alla telecamera oltre il limite consentito. In una diretta lanciò un piatto d'argento: «I telefoni impazzirono».
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Captatio verso gli spettatori e ostilità contro cameraman e azienda. Alzava il tono in modo autoritario: «Tutti volevano che mi arrabbiassi perché faceva aumentare le chiamate, ma non potevo programmarlo perché non sarei stato naturale».
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Quando, al termine di un discorso, pronunciava il suo "quindi?", lento e in crescendo, i telefoni cominciavano a squillare: diventò "il quindi di Orlando". La sua cifra era la passione: «Arrivavo al cuore della gente con delle storie che inventavo al momento».
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Un tappeto Keshan da 1.490 euro? Nella televendita da un milione di visualizzazioni su YouTube lo presentava come se fosse proprio quello del celebre sultano Fershid. Peccato non sia mai esistito alcun sultano Fershid. «Ma il tappeto era davvero un persiano fatto a mano». E i prezzi? «Poco superiori a quelli di mercato, per tenere in piedi l'azienda. Ovviamente intrattenimento incluso».
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