Carlo Moretti per “la Repubblica”
little steven memoir
Certi incidenti cambiano la vita. A volte riescono persino a favorirla. La bandana più famosa del rock nasce a causa di un drammatico frontale su una strada a quattro corsie in America. Lo racconta Little Steven nella sua autobiografia intitolata Memoir - La mia odissea, tra rock e passioni non corrisposte, in uscita oggi per l'editore Il Castello: «Finii sbalzato sfasciando il parabrezza, dovettero farmi qualche intervento. Da allora i capelli non sono mai ricresciuti come si deve».
Uno dei tratti distintivi del look del chitarrista della E Street Band di Springsteen si sarebbe presto trasformato in un vantaggio: «La bandana mi è stata di grande aiuto quando ho cominciato la mia attività di attore», dice Steven Van Zandt (il suo vero nome) che ha lavorato nelle serie I Soprano e Lilyhammer.
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«Sullo schermo, indossando le diverse parrucche, appaio molto diverso, nessuno mi riconosce come quel musicista che ha visto suonare a San Siro!» dice via Zoom. «Grazie alla bandana vengo accettato più di quanto non accada ai pochi musicisti che riescono a fare il salto nel cinema ».
Il look è una delle fisse di Van Zandt, per certi spolverini confessa di essersi ispirato ai personaggi degli spaghetti western: «Sul palco non conta solamente come canti e come suoni. Del resto, dei Beatles si è cominciato a parlare per il loro taglio di capelli. Il pubblico ama il look di una rockstar, abiti che non trova ai grandi magazzini, è questo che affascina e arricchisce l'esperienza ».
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Da ragazzo, a un concerto dei Cream, si arrabbiò molto: «Avevo pagato un mucchio di dollari e quelli si erano presentati con una maglietta e dei jeans da lavoro. Andiamo, io non spendo i miei soldi per vederti in jeans e maglietta, ma qual è il tuo problema? Mi aspettavo di trovarli sul palco psichedelici come nella copertina di Disraeli gears, le lascio immaginare la delusione ».
L'autobiografia è un viaggio nella musica, si legge che i ragazzi americani scoprirono gli artisti e i bluesman del loro Paese grazie alla British Invasion: «Io non avevo ancora mai sentito Chuck Berry, né Bo Diddley o Little Richard. Del resto, perché avrei dovuto conoscerli? Me li fecero conoscere i Beatles e i Rolling Stones, gli Who, gli Yardbirds».
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Van Zandt era convinto che Rod Stewart fosse nero: «Aveva una voce da nero e non c'erano ancora i video. Anche le loro fotografie erano rare. Quando infine le abbiamo viste non credevamo fosse lui. Non ci credetti finché non lo vidi con i miei occhi dal vivo, sul palco, nel gruppo di Jeff Beck».
Con il Boss avevano raggiunto una discreta popolarità negli Steel Mill ma Bruce, che aveva un contratto discografico in arrivo, li lasciò per creare una sua band e al provino Van Zandt venne scartato. Per poco fece anche l'operaio. Così nel libro ricorda la sua delusione: «Il rock, la mia religione, era pieno di ingrati e di infedeli».
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Tra questi c'era anche Bruce?, gli chiediamo; piega la testa, fa un'espressione di ammissione, poi risponde: «Beh, non lo so, il fatto che non mi difese di sicuro non ebbe conseguenze sulla nostra amicizia. Il nostro legame era forte abbastanza da resistere anche alle tre liti molto violente che abbiamo avuto nel corso degli anni. Diciamo che recuperavamo velocemente »
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