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    L’AVIAZIONE IRACHENA HA ATTACCATO UN CONVOGLIO JIHADISTA CON A BORDO NUMEROSI CAPOCCIA ISIS. TRA LORO PARE CI FOSSE ANCHE AL BAGHDADI MA IL SUO CORPO NON ERA TRA I CADAVERI...


     
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    1 - CONVOGLIO BOMBARDATO, MISTERO SUL CALIFFO

    Guido Olimpio per il “Corriere della Sera”

     

    È un detto che veniva usato per commentare il mistero di Osama. «Non dare per morta una persona fintanto che non vedi il corpo. E anche allora potresti fare un errore». Oggi lo si può applicare al nuovo nemico numero uno, il Califfo dell’Isis.

     

    La tv irachena, secondo un canovaccio ormai consueto, ha annunciato che l’aviazione ha attaccato un convoglio jihadista con a bordo numerosi dirigenti nell’Anbar. Tra loro anche Abu Bakr al Baghdadi. News seguita dall’incertezza sul suo destino: i suoi lo hanno portato via, non sappiamo dove sia. Poi a fine giornata la precisazione che il leader non era tra i cadaveri dei militanti portati all’ospedale.

     

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    E il capo dell’Isis è tornato nell’ombra. Piuttosto elaborato il racconto ufficiale. Un’informazione arrivata al centro di coordinamento iracheno — dove sono presenti anche russi, siriani e iraniani — ha segnalato un vertice jihadista a Kabrala, nella parte ovest dell’Anbar, provincia dove il movimento domina. E forse la «talpa» ha anche riferito di un corteo di «ufficiali» islamisti di alto livello.

     

    La mano è passata all’aviazione irachena che ha lanciato un doppio strike. Il primo contro il luogo dove era in programma la riunione, il secondo avrebbe centrato il convoglio uccidendo molti dei passeggeri, quasi una quindicina. Infine il terzo gradino con il lancio dei particolari sul canale tv, prima ottimisti sulla fine del leader, poi cauti e vaghi. Come le altre volte.

     

    Allora è possibile che Abu Bakr fosse davvero su uno dei suv, ma non c’è modo di sapere le sue condizioni. Oppure non è mai stato su uno dei mezzi presi di mira dai caccia. Ipotesi accompagnate dalla diffusione sul web di una foto del presunto cadavere del leader. Per alcuni «prova», per altri manipolazione in un momento dove Bagdad vuole dimostrare di essere al pari di Damasco nella lotta alla guerriglia.

     

    LA FOTO DEL PRESUNTO CADAVERE DEL CALIFFO AL BAGHDADI LA FOTO DEL PRESUNTO CADAVERE DEL CALIFFO AL BAGHDADI

    Per molti è sembrato rivedere un film conosciuto. Nel novembre 2014, sempre gli iracheni avevano parlato di un raid nell’Anbar con al Baghdadi probabilmente ferito, se non addirittura morto. Nel marzo 2015 altra soffiata ai media, con il veicolo del leader distrutto da un raid, il Califfo forse paralizzato e il suo ruolo assunto pro tempore da Abu Ala al Afri. Situazione confusa chiusa in apparenza da un audio dove la guida dei militanti faceva sentire la propria voce.

     

    C’è da dire che rispetto a bin Laden, l’uomo che ha preso le redini dello Stato Islamico fornisce ben poche prove della sua esistenza. Di lui ci sono rare immagini pubbliche. Inoltre, nel timore di essere individuato, ha creato attorno a sé un formidabile cerchio di sicurezza affidato a militanti selezionati. Molto scrupoloso anche nell’utilizzo di apparati elettronici. Inoltre con il denaro che ha sarebbe poi strano che non si fosse dotato di sistemi di comunicazioni criptati. Infatti lui ha evitato i missili dei droni mentre è andata peggio a molti esponenti Isis neutralizzati dai droni statunitensi.

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    2 - PARLANO LE SCHIAVE YAZIDE DI AL BAGHDADI

    Viviana Mazza per il “Corriere della Sera”

     

    «Era alto, con gli occhi neri, e calvo sulle tempie. Indossava una lunga tunica bianca e una sciarpa nera sulla testa. È arrivato con suo figlio, un ragazzo sui 14 anni, e con un amico di nome Mansur. Ha preso nove di noi e ci ha portate a casa sua a Raqqa. Ha detto di chiamarsi Abu Khaled, ma era Abu Bakr al Baghdadi, l’ho riconosciuto dalle foto».

     

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    Solo gli occhi sono visibili, per ragioni di sicurezza: castani, inquieti, da bambina. Sahera (uno pseudonimo) ha 14 anni, parla al Corriere in un salotto di Dohuk, una cittadina del Kurdistan iracheno. Porta braccialetti colorati ai polsi, i jeans e una maglietta da adolescente qualunque, ma non lo è: Sahera è stata una schiava del Califfo per tre mesi, un anno fa.

     

    Gli occhi di Dilvan, 16 anni, che ha condiviso la prigionia con Sahera, sono invece azzurri, spalancati e vuoti; ci parla inginocchiata su un materasso in una casa ancora in costruzione dove si è rifugiata ora con la famiglia. Ricorda quando Al Baghdadi la picchiò perché aveva tentato la fuga e disse: «Tu appartieni allo Stato Islamico».

     

    Queste due ragazze yazide — appartenenti a una piccola minoranza religiosa del Kurdistan iracheno, che è vittima di un tentato genocidio per mano dell’Isis — stanno per partire per la Germania per un programma di assistenza psicologica, ma prima del viaggio sono state interrogate da funzionari (e giornalisti) americani perché la loro testimonianza è unica.

     

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    Rapite sul monte Sinjar dopo l’attacco dell’Isis il 3 agosto 2014, portate dai jihadisti a Mosul e divise dalle donne sposate, condotte in bus in Siria con altre cento «per essere donate ai leader», dicono di essere state scelte dal Califfo. Hanno vissuto per venti giorni, nell’agosto 2014, sotto lo stesso tetto del leader dell’Isis e poi, dopo un tentativo di fuga, sono state tenute prigioniere dal « tesoriere» Abu Sayyaf, insieme all’ostaggio americano Kayla Mueller. All’una di notte, l’8 ottobre di un anno fa, sono sgusciate dalla finestra riuscendo a mettersi in salvo (mentre la ragazza americana è rimasta prigioniera fino alla morte in circostanze misteriose).

     

    Il loro racconto — benché impossibile da verificare in modo indipendente — offre uno squarcio sul carattere, le cautele (ma anche le libertà) del leader dell’Isis. «Era una persona molto calma, che non alzava mai la voce», spiega Dilvan. Oltre a usare sempre e soltanto il nome Abu Khaled di fronte alle schiave, non aveva il cellulare, preferendo affidare le comunicazioni ad altri miliziani, e usava «una stanza privata con un computer e una connessione Internet».

     

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    Incontrava spesso altri leader a casa di Abu Sayyaf, ma era già braccato: raid come quello di ieri erano frequenti e Sahera spiega che anche le schiave venivano spostate in edifici già distrutti, per sicurezza. Le adolescenti ricordano i cinque figli del Califfo (il più piccolo neonato, il più grande quattordicenne) e le sue tre mogli: «Umm Khaled, siriana, Umm Ahmed, saudita, e Nour, un’irachena di 15 anni». Costrette a fare i lavori di casa, venivano picchiate dalle mogli del Califfo «con bastoni e tubi di gomma, senza motivo, perché ci accusavano d’essere infedeli». Sahera mostra le cicatrici sui piedi, Dilvan dice che una volta le hanno slogato una spalla.

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    Entrambe negano di essere state violentate, ma credono che sarebbe accaduto una volta trasferite a casa del tesoriere Abu Sayyaf. Qui altre quattro yazide e l’americana Kayla erano tenute rinchiuse con Sahera e Dilvan in una stanzetta «con i cuscini per terra, una bandiera dell’Isis alla parete e uno specchio». Il Califfo veniva in visita: aveva scelto una delle quattro yazide come concubina e Kayla «come moglie».

     

    «La portava nella stanza degli ospiti, dove c’era la tv e un materasso per terra — spiega Dilvan —. Una volta è stata fuori per due ore, al ritorno piangeva. Le abbiamo chiesto: “Cosa fate lì dentro?” Ha detto che lui le insegnava il Corano e poi la stuprava, e che voleva che cambiasse nome, che si facesse chiamare Iman e fingesse d’essere francese, in modo da diventare sua moglie. Però non voleva che le altre tre mogli lo sapessero».

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    Che il Califfo sia vivo o morto, Dilvan se ne vuole andare. La linea del fronte è a 170 chilometri. «L’Isis è troppo vicino».

     

    L'AVANZATA DELLE MILIZIA JIHADISTE CONTRO GLI YAZIDI IN IRAQ L'AVANZATA DELLE MILIZIA JIHADISTE CONTRO GLI YAZIDI IN IRAQ

     

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