Luca Telese per “la Verità”
Francesco Polacchi, lo scandalo di Torino lei lo aveva programmato. Confessi.
«Scherza?».
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È troppo scaltro per non sapere che il libro di Salvini pubblicato da un editore di Casapound avrebbe suscitato un vespaio.
«Nemmeno se mi avessero chiesto di scrivere un copione avrei potuto immaginare quel che è successo...».
Cosa non aveva previsto?
«Che ci negassero uno spazio, dopo aver firmato un regolare contratto».
Lei adesso farà causa.
«Questo è sicuro».
Pigi Battista è andato a comprare i libri della sua casa editrice.
«Meno male che esistono uomini liberi. Ma mi preoccupa tutto l' odio che si è abbattuto su di noi».
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In cambio, una visibilità mediatica senza precedenti: lo sa bene.
«Sono dovuto andare a recuperare i miei libri nel magazzino della polizia. Le sembra normale? 600 copie, non ne abbiamo potuta vendere nemmeno una!».
In compenso avete fatto una nuova ristampa.
«5.000 copie. E stiamo andando nuovamente in tipografia».
Quindi il bilancio com'è?
«Spero che questo sabotaggio non diventi un pretesto per togliere delle libertà a qualcuno».
Io sono Matteo Salvini sta già vendendo su Amazon.
«È in classifica, tra i primi. Ma non avrei mai voluto che un libro intervista potesse diventare uno scandalo perché ha un editore vicino a Casapound».
Lo scandalo è scoppiato quando lei alla Zanzara si è dichiarato «fascista».
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(Sorriso). «Sono stato un coglione. Ma non perché io mi debba pentire di quello che ho detto».
E allora per cosa, scusi?
«Per la tempistica dell' intervista a Cruciani e Parenzo, che ha offerto un' arma agli intolleranti. Però cambia poco. Hanno usato la Zanzara come un pretesto».
Cosa non ripeterebbe?
«Su quella intervista non dico più nulla. Sono indagato, e anche questo dovrebbe far riflettere, per un reato di opinione!».
Francesco Polacchi è tornato al Salone di Torino anche dopo la rescissione del contratto per il suo stand. La sua autrice, Chiara Giannini, si è avvicinata allo stand della Feltrinelli. E lì è partito il coro di chi ha intonato «Bella Ciao» in polemica. Polacchi, militante di Casapound, imprenditore ed editore, fa discutere anche per la sua storia, i precedenti penali che alla Verità racconta per la prima volta: «Non ho nulla di cui vergognarmi».
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Dove è nato?
«Roma, 16 aprile 1986, ariete».
Quattro giorni prima del compleanno di Adolf Hitler.
(Sorride). «Dieci giorni prima di Chernobyl. Pesa molto di più sulla mia vita la seconda data».
Da che famiglia viene?
«Mio padre era figlio di una casalinga e di un camionista. Mio nonno muore quando lui ha sedici anni».
E che mestiere ha fatto?
«Tre. Lavorava dalle otto di mattina alle otto di sera».
Dove abitavate?
«Montespaccato, periferia occidentale di Roma. Papà ha iniziato da camionista, poi è diventato agente di cambio. Quando ero piccolo faceva il ghost writer e poi andava a lavorare in una palestra gestita dai nostri padroni di casa».
Era di destra?
«Comunista convinto. È del 1955, è stato il segretario della Fgci ad Acquapendente. Uno zio di secondo grado era firma nota dell' Unità».
FRANCESCO POLACCHI E UN GRUPPO DI GIOVANI NEOFASCISTI A PIAZZA NAVONA NEL 2008
E sua madre?
«Ex professoressa di educazione fisica. Dc, dopo il '93 ha votato An».
Ah, ecco.
«No. Pesa di più la contrapposizione con mio padre».
Parlavate di politica?
«Uhh... Campagna per le elezioni di Roma, avevo 7 anni, mio padre votava Rutelli, mia madre Fini. Lui: "Ma che, sei diventata fascista?"».
Eravate benestanti?
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«Non faticavano ad arrivare a fine mese, ma sentivo lo sforzo di mio padre nel fare tre lavori».
La sua formazione?
«La mia prima maglietta politica: una t-shirt rossa con la famosa effigie di Che Guevara, indossata durante una manifestazione di sinistra a favore delle droghe leggere. La conservo ancora».
Iannone lo sa?
«Sul Che non ho cambiato idea».
E sulla cannabis?
«Lì ho cambiato idea».
Dove ha fatto le superiori?
«Ho cambiato tre scuole. Combinavo guai (Ride). Dal convitto nazionale Vittorio Emanuele me ne sono andato prima che mi espellessero. Avevo dato manforte a un compagno di classe che disse alla vicepreside: "Vaffanculo!". Davanti a 200 persone il professore disse: se qualcuno è d' accordo con lui, faccia un passo avanti. Lo feci solo io».
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E suo padre?
«Arrabbiato. Avevo velleità anarchiche, oscillavo tra Guevara, Bakunin e Max Stirner. Contava la sfida alle autorità. O a mia sorella: tutti dieci, irreprensibile».
Cosa le diceva suo padre?
«Ti mando a fare il camionista come me. Mi mandò in un liceo privato, al Calasanzio. Esco con 2 debiti. Frequentavo lo stadio - Forza Roma - e litigavo con i professori».
La curiosità per la destra?
«Un mio amico mi fa sentire Generazione '78 di Francesco Mancinelli, storia di tanti cuori neri morti negli anni di piombo. Di Francesco Cecchin: "Strano modo di morire/ con le chiavi strette in mano"».
E cosa la colpisce?
«Mi identifico. Da Mancinelli passo a "Fronte dell' essere" degli Zetazeroalfa».
Il gruppo musicale di Iannone, da cui nasce Casapound.
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«Inizio a frequentare Il loro pub, il Cutty sark di Colle Oppio. A scuola, insieme a un amico che ho perso di vista, er sor Mario, fondiamo il nucleo di destra al Farnesina. Poi Azione Giovani, Area, e Marcello De Angelis, direttore ma anche cantante identitario con i 270bis.
Claretta e Ben, su piazzale Loreto, è la più bella di tutte».
Arriva il diploma
«70/100. Un miracolo».
Occupa la palazzina di Casapound?
«Non c'ero, aderisco il giorno dopo, 21 aprile 2004. I miei disperati: mio padre perché comunista, mia madre perché legalitaria».
Aveva un look da skin?
«No, mi rasavo ma non a zero. Giravo con camicie a righe vistose, sembravo un commesso di Footlocker».
Lei è alto 1,80: Repubblica scrive che è un picchiatore.
«Prima degli scontri di Piazza Navona ho partecipato a qualche scaramuccia tra studenti».
Lo dice soddisfatto.
«Non stigmatizzo la violenza. C'erano passioni».
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Racconti Piazza Navona.
«Fummo aggrediti».
Dicono tutti così...
«Nel 2008 guidammo una rivolta generazionale con gli studenti di sinistra senza problemi. Quel giorno, durante un corteo contro la Gelmini, arrivarono gli autonomi per menarci».
C'è la sua foto con i bastoni...
(Sorriso). «Io le chiamo bandiere con il manico grosso».
Erano bastoni.
«Per difenderci da una carica di massa. Ci sentimmo Leonida alle Termopili. Per ognuno di noi erano 20, ma non ci hanno spazzato via».
Li conoscevate?
«Il più grande dei fermati era Gianluca Peciola, 36 anni. Diventò consigliere di Rifondazione».
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E se lo incontrasse per strada?
«Lo saluterei».
Il secondo scontro a Roma 3.
«Ero candidato al consiglio degli studenti universitari. Veniamo assaltati da una settantina di persone, noi in 17. Ho pensato: "Sono morto". Ne sono uscito con due colpi al cranio e un braccio rotto. E in testa 15 punti».
Se ne vanta?
«Mi sono rotto radio e ulna, ma non mi sono vendicato».
Si iscrive a Giurisprudenza.
«Ho dato 15 esami, media del 29 a Roma 3, ma non mi sono mai laureato: un po' pollo».
Viveva solo per la politica?
«Ho iniziato a lavorare come commerciale in un'azienda di maxischermi. Poi ho fatto l'imprenditore: con 20.000 euro di famiglia ho fondato una società di comunicazione, la Eye-tech. Poi l'ho chiusa e con i soldi ho aperto un marchio di abbigliamento, la Pivert».
Scegliendo come logo il picchio.
«È un animale totemico. Diventa un successo insperato».
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Arrivano anche guai giudiziari.
«Nella rissa dell'Università ero stato indagato e assolto. Nell' ottobre 2013 partecipo al corteo di Casapound davanti alla sede della Commissione europea, che si chiude con il furto della bandiera».
Stavolta arriva la condanna.
«Il furto era simbolico. Mi danno l'obbligo di dimora. Se venivano a casa mia e non c' ero, diventavo un evaso».
Ha frequentato più la questura di Casapound.
«Un commissario mi dice: "Polacchi, io vedo più te che mia moglie. Ti pare normale?"».
Otto provvedimenti restrittivi.
«Due volte le firme in questura due volte al giorno. Due volte gli obblighi di dimora».
Gira la foto in cui lei è a cena con Salvini, nel 2015.
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«Unica volta che l' ho visto».
Vi conoscevate?
«Ci siamo salutati e basta».
Però lui poi è andato allo stadio con il giubbotto Pivert.
«Il giubbotto gliel' ho regalato quella sera: nel 2015. Se lo mette nel 2018».
Che spiegazione dà?
«Sul giubbotto? Mah, se avesse voluto lanciare un messaggio, ricordandosi dopo tre anni, sarebbe un genio».
Sta svuotando Casapound dopo aver rotto con Casapound.
«Non c'è dubbio che competa con il nostro elettorato».
Ma non vi siete visti prima di pubblicare il libro?
«No. È stata Chiara Giannini, autrice dell' intervista, a offrirci l'opportunità. Io l' ho sfruttata. Sul libro c' è stata una richiesta da parte di un'altra casa editrice, credo la Rizzoli. Chissà cosa sarebbe accaduto...»
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Nulla. Come per i vostri primi otto libri. Ma chi è il finanziatore di Altaforte?
«Nessuno. Non mi hanno dato i soldi nemmeno le banche. I 50.000 euro di Altaforte arrivano dagli abbonamenti del Primato nazionale».
E adesso?
«Solo Mondadori ha ordinato mille copie».
E la rescissione del contratto a Torino?
«Oggi mi penalizza molto. Tra due anni sarà una medaglia».
E la richiesta di non vendere il libro nelle Feltrinelli?
«Autogol clamoroso».
È sposato?
MATTEO SALVINI A CENA CON I LEADER DI CASAPOUND E FRANCESCO POLACCHI
«Convivo, con tre bambini. Due miei e uno della mia compagna. Anche Alessandra è una militante di Casapound. Ma è prima di tutto una madre. È la prima volta che l' ho sentita preoccupata».
E lei cosa ha risposto?
«"Ma che ti sei bevuta? Non ci saranno problemi"».
Ne è convinto?
«No. Ma passi indietro non ne faccio».