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    LA MODA DEL CINEMA È FINITA – L’ETÀ D’ORO DEL GRANDE SCHERMO CAPACE DI ISPIRARE LA MODA E' ARCHIVIATA: ORMAI GLI ATTORI SONO SEMPRE PIÙ INFLUENCER CHE SFRUTTANO LA LORO IMMAGINE PER PROMUOVERE UNA MAISON FUORI DAL SET – I CASI DI MATRIMONI VINCENTI TRA MARCHI DEL LUSSO E PRODUZIONI SONO RARI: NE FU UN ESEMPIO LA COLLABORAZIONE TRA GIVENCHY E AUDREY HEPBURN. O PIU' RECENTEMENTE MIUCCIA PRADA PER “IL GRANDE GATSBY” CHE RIUSCI' A ISPIRARE SENZA SEMBRARE UN MEGA SPOTTONE… VIDEO


     
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    Estratto dell'articolo di Paola Jacobbi per “il Foglio Moda”

     

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    Negli Ottanta e Novanta, ovvero nell’autentica âge d'or della moda, nelle riviste funzionava più o meno così: le redattrici vedevano un film, a volte bastava che avessero visto solo delle immagini di quel film pubblicate da testate straniere, e partivano le idee di styling, anche se allora nessuno le chiamava così.

     

    I film ispiratori, su cui redattrici e fotografi imbastivano il concept dei servizi (anche il concept, allora, non si chiamava così, non si chiamava proprio) non dovevano necessariamente essere belli ma solo abbastanza suggestivi e almeno con un piccolo, a volte piccolissimo, punto di contatto con la moda sfilata pochi mesi prima.

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    […]

    Oggi i film sono sempre meno rilevanti in termini di influenza culturale, così come le riviste. C’è una nuova estetica istantanea, fatta di like e cuoricini, spinta dai social, che ha creato un multiverso in cui vale tutto. Siamo in un’âge in cui non solo manca l’oro ma che si proclama everything, everywhere, all at once, come il titolo del film che è candidato a undici premi Oscar.

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    In termini di ispirazione, il cinema non può più essere una fonte egemone. La moda si è accelerata, le collezioni e dunque le suggestioni si moltiplicano di mese in mese, i film sono rimasti al Novecento, ci vuole sempre almeno un anno e, in qualche caso molto di più, per concepirli e produrli.

     

    […] Un regista molto attento appassionato di moda come Luca Guadagnino coinvolge spesso stilisti nella creazione dei costumi. Per “Challenges”, protagonista Zendaya, la diva della Generazione Z, di prossima uscita, ma anche per “Queer”, in lavorazione, tratto dall’omonimo romanzo breve di William S.Burroughs, con Daniel Craig, storia di un expat americano in Messico che si innamora di un giovane marine, affrontando dubbi e insicurezze, ha chiamato J W Anderson, fondatore della griffe eponima e direttore creativo di Loewe.

     

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    Nel nuovo multiverso si alleano e si incrociano interessi diversi, per piattaforme diverse: il red carpet, le alleanze commerciali tra attori e brand, un sistema che probabilmente aiuta le vendite ma che impoverisce le idee. Se si escludono poche attrici, Cate Blanchett per esempio, dotata di forte personalità, tutte le altre e gli altri sono spesso alla mercé dell’ultima collezione da promuovere, a pagamento. Gli attori sono diventati influencer, è il loro secondo lavoro. Non sempre hanno l’autorevolezza o la competenza fashion, per scegliere quello che davvero li valorizza. Si affidano agli stylist, i nuovi re e regine di un pasticciaccio a volte brutto in cui si mescolano troppi interessi perché vinca non dico il buon gusto ma almeno il buon senso.

     

    […] prima […] Più gli attori si sono affrancati da un sistema che li usava e scambiava da uno studio all’altro come calciatori dal Milan al Real Madrid, più la moda è diventata il segno della loro libertà di scegliere chi essere e a chi piacere. Da qui sono emerse alcune collaborazioni molto felici, una per tutte quella tra Hubert de Givenchy e Audrey Hepburn.

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    La rivoluzione però è arrivata davvero con Giorgio Armani e l’ingresso del made in Italy a Hollywood, attraverso il film American Gigolò. Uno stile definito diventava protagonista, segnalava lo spirito del tempo, faceva decollare le vendite e il prestigio internazionale del marchio.

     

    Da quel momento, però, un esercito di brand ha iniziato a prendere accordi con le case di produzione cinematografiche, attraverso contratti di sponsorizzazione e product placement, a volte sottile, spesso troppo sfacciato per essere accettabile. Si contano sulle dita di una mano gli incontri riusciti. Penso al lavoro di Miuccia Prada per Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann (2013), dove il gusto deco del periodo, gli anni Venti del secolo scorso, si sintonizzava con il mondo della designer senza mai diventare l’espansione di una campagna pubblicitaria. Caso più unico che raro, in un decennio in cui il potere dei brand più danarosi e dei loro uffici marketing ha ridotto i film a spot. O almeno ci ha provato e continua a provarci.

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